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Se c’è qualcosa che davvero non so gestire è la fede calcistica maschile. Ogni volta che succede mi trovo totalmente impreparata. Stavolta è successo mentre la Roma, che stava vincendo 3 a 1 contro la Juventus, inizia a perdere miserabilmente, e in pochi minuti – sette – perde per 4 a 3. L’intervista coi registi gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, romanisti sfegatati, parte così, nel loro ristorante preferito della capitale in cui avremmo dovuto mangiare carbonara e parlare amabilmente di cinema.
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Dopo i film La terra dell’abbastanza e Favolacce, amatissimi dalla critica e da molti considerati capolavori, debutta America Latina, presentato a settembre scorso a Venezia e che, inaspettatamente, è tornato dalla Laguna senza premi.
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Ma contano davvero i premi per chi fa cinema? Secondo Damiano: «Il premio a Berlino, al nostro apice, se lo avessi preso da solo sarebbe stato un giorno d’infinita tristezza. Vissuta senza mio fratello qualsiasi cosa non sarebbe bella. Dal sorriso che fa io capisco qualcosa anche di me stesso».
Se c’è qualcosa che davvero non so gestire è la fede calcistica maschile. Ogni volta che succede mi trovo totalmente impreparata. Stavolta è successo mentre la Roma, che stava vincendo 3 a 1 contro la Juventus, inizia a perdere miserabilmente, e in pochi minuti – sette – perde per 4 a 3. L’intervista coi registi gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, romanisti sfegatati, parte così, nel loro ristorante preferito della capitale in cui avremmo dovuto mangiare carbonara e parlare amabilmente di cinema.
E invece mi trovo davanti a un maxischermo ad analizzare, con loro e il proprietario del ristorante, personaggi a me sconosciuti come l’allenatore José Mourinho «che alla Roma ci voleva», e valutare la psicologia di una squadra che parte bene e poi si arena «un po’ come siamo noi romani, discontinui», e pregare che un rigore a favore dei giallorossi, a dieci minuti dal fischio finale, entri in porta (non me ne vogliano gli juventini, ma io pensavo solo alla mia serata).
Il rigore non entra, le frasi nel ristorante meriterebbero di essere raccolte in un libro di poesie e io, per più di un attimo, ho pensato che fosse meglio tornare a casa. E invece no. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare, dice John Belushi in Animal House. E alla fine proprio in quella trattoria di via Manzoni, ho capito la tempra, la pazienza e la generosità dei D’Innocenzo. Più che nella sala grande del Festival del cinema di Venezia.
America Latina
Sono qui perché giovedì esce in tutte le sale d’Italia la terza opera dei gemelli-fratelli-pensiero-unico Fabio e Damiano D’Innocenzo. Dopo i film La terra dell’abbastanza e Favolacce, amatissimi dalla critica e da molti considerati capolavori, debutta America Latina, presentato a settembre scorso a Venezia e che, inaspettatamente, è tornato dalla Laguna senza premi e con tiepide recensioni. «È il nostro film riuscito meglio. Tutto questo verrà capito solo col tempo», assicura Damiano, mentre fa cenno al ristoratore di iniziare a portare i piatti.
Inquadrature simmetriche, scelta di colori freddi, calibrato uso di luci e ombre sui volti. E quel titolo, America Latina, un gioco di parole che nulla ha a che vedere con atmosfere tropicali.
Ho visto il film al Festival di Venezia, alla prima proiezione per la stampa, e fin dai primi minuti ho sentito salire una tensione che non mi ha lasciato per tutta la visione dell’opera. Se si ha la forza di trattenere il fiato e le emozioni per 90 minuti, l’ultima scena è un regalo.
Solo alla fine ho capito che la mia idea sul protagonista, Massimo, interpretato da Elio Germano, non corrispondeva al vero. Sono rimasta inebetita davanti ai titoli di coda, rianalizzando la storia alla luce di quel finale. Seduta al buio mi tornava il mente The Others, il film di Alejandro Amenàbar con Nicole Kidman, ma anche Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola e The Parasite di Bong Joon-ho, per quella villa divisa tra sopra e sotto, tra dentro e fuori, tra bello e brutto, tra poesia e paura. Perfino Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.
Seduti a cena
Al tavolo arrivano delle birre. Damiano è di fianco a me mentre Fabio si trova a New York, in collegamento audio. Credo di assistere a un piccolo miracolo, raramente i due sono separati. Non so se è merito di Mourinho anche questo, ma a un certo punto qui, tra una carbonara e un fiore di zucca fritto, si parlerà di tutto, di faccende terrene, di mutui, cani da portare al parco e serie tv. Non di sole inquadrature e poesia vivono i registi.
Damiano confessa di aver visto, nei quattro giorni scorsi, tutte e tre le stagioni di Succession «dopo un meeting con i produttori di Hbo», mentre Fabio è stato all’anteprima del film di Paul Thomas Anderson, Licorice Pizza, «che in Italia arriverà solo a febbraio». Poi, senza snobberia da cineasta, aggiunge di aver rivisto le puntate del più commerciale O.C. con la fidanzata, l’attrice Carlotta Gamba conosciuta proprio sul set di America Latina.
I D’Innocenzo parlano il romano di borgata, si indicano come “mi fratello”, ci tengono a ricordare che arrivano da Tor Bella Monaca. Ma è la loro dialettica e l’uso incredibile del vocabolario a renderli “tropicali”, come direbbe Damiano. E tropicali sono anche quando dicono che il loro film cult è I ragazzi della 56esima strada.
«Avevamo 17 anni, lo abbiamo guardato per un mese di seguito e sappiamo tutte le battute a memoria. Lo abbiamo già detto in altre interviste ma nessuno lo ha mai scritto, chissà perché». Giornalisti snob, è il sottotitolo. Il ricordo di quel film per un attimo li riporta indietro. «Il mio attore preferito era Matt Dillon», anticipa Damiano. «I miei Emilio Estevé< e Tom Cruise», lo rincorre Fabio. «Scusa e Ralph Macchio e Rob Lowe dove li metti?», chiude Damiano. In Italia qual è l’attore con cui vi piacerebbe lavorare? Scatta Fabio: «Filippo Timi, ha una fragilità così evidente da farmi male».
Colleghi e delusioni
Hanno visto i film di tutti i colleghi: Sorrentino, Guadagnino, Rovere, Mainetti e Muccino. E con tutti sono stati a cena. «Sorrentino era seduto qui al tuo posto», aggiunge Damiano. Ci provo: chi butteresti giù dalla torre? Interviene l’ufficio stampa, «Questa no». Damiano ride, me lo stava per dire.
Fabio prende la parola: «Un regista con cui mi piacerebbe cenare è Dario Argento. Un idolo». Scopro che hanno una sorella più grande “comunista” e un fratello chef che vive all’estero; che uno dei due ha comprato casa, Fabio, e l’altro è in affitto, Damiano, e che distano dieci minuti l’uno dall’altro.
Scopro anche che hanno discusso animatamente perché Fabio, che ha un profilo su Instagram, ha «avuto uno screzio con un provocatore della rete» e Damiano non l’ha presa bene. «Hai ragione fratè, imparerò dai miei errori», sussurra Fabio. Sembra realmente ferito.
Per voi vale la regola del mal comune mezzo gaudio? «No. Tutto quello che è doloroso lo viviamo come doppiamente doloroso, perché io non subisco solo il mio dolore, ma sento anche quello di mio fratello. Lo leggo nei suoi occhi e mi fa male». E a proposito di delusioni, Fabio non ci gira intorno. «A Venezia ho incassato la delusione anche per i nostri genitori. L’entusiasmo vissuto in sala non lo hanno ritrovato sulle recensioni. So che hanno sofferto e io soffrivo per loro».
Per Damiano il tema del dolore sembra più urgente della delusione di Venezia. «Io ho sofferto fin dalle elementari. I miei voti erano migliori di Fabio, e sentivo una grande sofferenza nel lasciare mio fratello un po’ indietro. Il mio grande rimpianto, un po’ tropicale come cosa, è che mi sarei voluto chiamare già Fratelli D’Innocenzo anche a scuola, per far sì che il voto fosse unico. Non è un caso che oggi accada».
Premi
Ma contano davvero i premi per chi fa cinema? Continua Damiano: «Il premio a Berlino, al nostro apice, se lo avessi preso da solo sarebbe stato un giorno d’infinita tristezza. Vissuta senza mio fratello qualsiasi cosa non sarebbe bella. Dal sorriso che fa io capisco qualcosa anche di me stesso. La divisione che c’era a scuola, entrambi seduti al banco con un’altra persona, fa parte dei miei incubi. Tutto ciò che ha a che fare con la delusione e il senso di colpa che ne deriva da essa, viene da quegli anni scolastici».
Nel corso dell’intervista Damiano, che di solito preferisce mandare avanti Fabio, mostra la sua tempra. Il periodo della loro adolescenza è stato formativo. A un certo punto, intorno ai 17 anni, confessa, di aver passato un periodo di depressione, «Non mi sentivo compreso, tanto da non riuscire ad alzarmi dal letto».
Chiedo a Fabio che cosa ne pensi. «È stato il peggior periodo della mia vita. Ha forse determinato, per alcuni versi, i ruoli tra di noi. Io posso sembrare il più forte, in realtà sono una persona insicura. Damiano può sembrare il più paziente, in realtà la sua pazienza è la sua grandissima forza».
Essere fratelli
Annuisce Damiano. Gli chiedo quale sia il pregio di suo fratello. «Il coraggio nell’affrontare qualcosa che io in quel momento non riesco ad affrontare. Un coraggio che si fa carico anche della mia paura». E il suo difetto? «È troppo estremo, fa fatica a credere che esiste una mezza via. Per me le mezze vie e i mezzi toni esistono. Molti dei nostri personaggi vivono di mezzi toni. Ecco, è come se mio fratello non accettasse il fatto di essere o bianco o nero in tutte le situazioni, questo è ciò che mi costa. A volte troppo. Per questo dice che sono il più paziente. A volte mi spazientisco di quanta pazienza io abbia. E di quanto, a volte, posticipi le decisioni».
In questo momento, per la legge del Karma, sono grata alla Roma, a Mourinho, perfino al calciatore che ha sbagliato il rigore. E a questa distanza dei fratelli, che loro usano come una confessione. «Anche se la Roma ha perso sento che questo è un bel momento per me», continua Damiano. «Certo, avrei bisogno di guardare Fabio per capire se è davvero così». Riceve un messaggio, è in arrivo la sua fidanzata con cui porterà fuori il cane.
E le vostre compagne che ne pensano? «Non è facile. Nessuno riuscirà mai ha trasmettermi la fiducia e la sicurezza che mi dà mio fratello. Non è uno scendere a compromessi, è semplicemente un dato di fatto. Il mio primo pensiero va sempre a Fabio, non so perché è così, certe volte vorrei che non fosse così. Ma è così».
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