Wolfs, che celebra la reunion di due storici amici, è una commedia nera davvero divertente. I’m Still Here è il film della vita del regista brasiliano. Sarebbe un ottimo candidato agli Oscar
Un festival del cinema fa il suo dovere se ti costringe a terremotare i programmi. Da un punto di vista mediatico, il titolo forte della domenica veneziana era e resta indubbiamente Wolfs – Lupi solitari, che è fuori concorso e uscirà il 27 settembre su Apple Tv+ senza passare per le sale, ma soprattutto saluta la reunion di due storici amici, complici e un tempo inseparabili compagni di bevute (prima del royal wedding George-Amal, prima del disastroso epilogo dei Brangelina come coppia più glamour dello schermo, insomma prima di tutto).
Sto chiaramente parlando di George Clooney e Brad Pitt, che non lavoravano insieme da sedici anni, dai tempi di Burn After Reading – A prova di spia dei fratelli Coen. Due sessantenni a prova di eternità che tornano sul tappeto rosso del Lido fanno scalpore, inossidabili, autoironici e irresistibili in barba alla brizzolatura, oggi più che mai disposti a prendersi gioco del loro passato da sexiest man alive.
Commedia nera
Di questo Wolfs non sono solo protagonisti assoluti ma anche coproduttori, per la regia di Jon Watts, che dopo l’ultima trilogia di Spider-man ha deciso di concedersi una parentesi di puro diletto passando, come dice, «dai supereroi alle superstar».
Si vocifera che Apple li abbia reclutati a suon di milioni, 45 cinque a testa per l’esattezza, ma i pettegolezzi vanno presi con beneficio di inventario. Il punto è che il film è divertente davvero, una commedia nera tutta da ridere che ammicca, nel titolo, al personaggio del “ripulitore” che Quentin Tarantino aveva cucito addosso ad Harvey Keitel in Pulp Fiction. Jack (Clooney) e Nick (Pitt) fanno più o meno lo stesso mestiere. Sono due fixer, raddrizzatori di pasticci e risolutori di problemi. Solo che ognuno dei due crede di essere il solo in città.
Quando una procuratrice distrettuale in carriera si trova alle prese, nella stanza di un hotel a cinque stelle, col cadavere del ragazzo che ha rimorchiato, schiantato a terra per incidente, scatta la chiamata d’emergenza.
Brutto carattere e immenso ego, Clooney sarà costretto a collaborare con Pitt, convocato in contemporanea dalla proprietaria dell’albergo. Il gioco sta tutto nelle baruffe tra i due e nel conflitto di caratteri: secchione l’uno, fanfarone l’altro, e in più incline a trattare il collega da vecchio rottame.
Quando dallo zainetto del cadavere (che poi si scoprirà solo svenuto) sbuca una scorta massiccia di eroina, la nottata si complica. Per evitare pasticci, la droga deve tornare alla base: compito dei malcapitati fixer.
Come ogni buddy movie che si rispetti, questo parte dall’odio implacabile tra due facce da schiaffi che duellano a colpi di battute. E che saranno costrette a scalmanarsi nei bassifondi di una Chinatown notturna e nevosa, all’inseguimento del ragazzino in mutande che si è rivelato un centometrista acrobatico.
Il movimento non manca
È una competizione senza quartiere, specie quando scoprono di avere in comune lo stesso “contatto” in quel di Chinatown, una dottoressa specializzata nelle guarigioni clandestine. «Andiamo a letto con lo stesso medico di Chinatown?» chiede Nick a Jack.
L’espressione di Clooney, che con ogni evidenza non gode di tanta intimità, da sola vale il film. La dottoressa, che conosce i suoi polli, dovrà smascherare la fanfaronata: «Ti ha detto che vado a letto con lui? Ti ha preso per il culo». Non è finita: devono far confessare al ragazzo (Austin Abrams, spassoso anche lui) chi gli ha dato la droga e perché, nella improbabile camera Safari di uno scalcinato albergo a ore.
La tappa seguente è il bar dove malauguratamente il boss croato che ha conti in sospeso con i nostri eroi sta festeggiando il matrimonio della figlia. E i due si trovano risucchiati nelle coreografie folkloristiche degli invitati, con accompagnamento di revolver.
Non sto a spiegarvi il come e il perché, ma seguirà un’ecatombe malavitosa nel covo della mafia albanese. Insomma di movimento ce n’è da vendere, e in corso d’opera i due lupi solitari si scopriranno più simili di quanto immaginassero. «Vestite uguali, parlate uguali, sembrate la stessa persona», li illumina con candore il ragazzo.
Il risvolto più sorridente è il ritorno dalla nottata, in metro, con la riconsegna protettiva del giovanotto al suo babbo che li intrattiene snocciolando la sua devozione a Frank Sinatra. Sul vero finale tengo la bocca cucita, ma a sorpresa ha molto in comune con Butch Cassidy.
I’m Still Here
Se ti sei programmato per ridere – almeno un giorno di puro e prezioso diletto – non ti aspetti di piangere come una vite tagliata per un film del concorso che non prevedevi cruciale.
Se i brasiliani hanno la testa a posto candideranno I’m Still Here di Walter Salles ai prossimi Oscar, e magari la protagonista Fernanda Torres andrà in cinquina tra le migliori attrici.
Walter Salles è un regista impegnato da sempre, ma onestamente non ha mai sfornato capolavori. Questo è il film della sua vita: intimo, coinvolgente, perfetto. Da noi uscirà con Bim solo nel 2025. È tratto dal bestseller Ainda estou aqui di Marcelo Rubens Paiva e racconta semplicemente l’odissea di sua madre e dei suoi quattro fratelli quando Rubens Paiva, il padre, viene rapito e assassinato nel 1971 della dittatura.
Dico “semplicemente” perché non ha pretese stilistiche, o meglio non le ostenta: è vita raccontata. Salles conosceva bene la famiglia, frequentava la casa che descrive, era amico dei figli Paiva. E Eunice Paiva, che a 48 anni riuscì a laurearsi in legge per mantenere i figli, ha lottato per venticinque anni per ottenere almeno un certificato di morte dal governo.
«Quando ho letto per la prima volta il libro mi sono commosso profondamente – racconta il regista – perché la storia dei desaparecidos veniva raccontata dal punto di vista di quelli che erano rimasti. L’esperienza di Eunice conteneva sia una storia di sopravvivenza al lutto che lo specchio di una nazione ferita. Durante i sette anni impiegati a costruire il film la vita in Brasile ha virato pericolosamente verso la distopia degli anni Settanta, il che ha reso ancora più urgente raccontare questa storia». Vale la pena di aspettare l’uscita in sala da noi, anche se non sarà a breve.
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