Claudio Bisio scrive come parla. Vale a dire che quando lo leggi in testa ti risuona la sua voce, un po’come accade per i romanzi di Francesco Guccini. Come se lo scritto fosse un audiobook naturale. E sulla pagina riconosci quel vezzo comico – un marchio di fabbrica – di affermare una cosa e smentirla subito dopo. Tipo: «Tanta gente. Abbastanza gente». Oppure: «Contrite, spaesate. Più spaesate che contrite». Per non parlare delle vagonate di pop culture e di citazioni allegramente bislacche (Paperino detiene il primato) che infila come incisi in ogni discorso.

Non è il solo piacere che riserva il suo esordio da romanziere, Il talento degli scomparsi, fresco di stampa con Feltrinelli. Per chi ha dimestichezza con l’uomo, è stuzzicante riconoscere gli ampi stralci autobiografici – stemperati da una robusta iniezione di fiction paradossale – insinuati nella storia parallela di Marco e Mirko, gli antieroi del racconto. In questa struttura a personaggi incrociati Bisio ha trovato l’antidoto ideale alla banalità del memoir. A monte ci sono la passione per Borges e Perec e le fascinazioni calviniane de Il castello dei destini incrociati, il gusto di immaginare personaggi a contrasto che non si incontrano mai e che anche stilisticamente divergono.

Uno è raccontato in terza persona, l’altro in seconda. Alla prova del romanzo, dopo il suo esordio alla regia, nel 2023, con L’ultima volta che siamo stati bambini, Bisio si è imposto un esercizio di stile: sarebbe avvilente farsi leggere solo in grazia di uno status da star. Ha lavorato sugli incipit dei capitoli, sempre facendo tesoro di Calvino: «Ricordi Una notte d’inverno un viaggiatore? – esemplifica – ogni capitolo iniziava con un racconto diverso che non finiva mai.

È uno dei libri che ho amato di più nella vita ma anche uno di quelli che mi hanno innervosito di più: partiva una storia bellissima, ma restava un incipit, non si concludeva. Ti facevi l’idea che avessero sbagliato le pagine». Tanti capitoli di Il talento degli scomparsi iniziano con una storia trasversale che poi si perde: un esplicito omaggio da appassionato lettore.

Marco e il suo doppio

«Marco e Mirko sono due gemelli. Marco è alto un metro e venti, Mirko invece centoventi centimetri. Mirko ha gli occhi celesti, Marco invece pure». La citazione da Gianni Rodari è a pag.255, e sembra un haiku: è stata uno spunto prezioso. Nei titoli di coda finali (non è un modo di dire, il romanzo è impregnato di cinema) l’autore annota: «Alcuni amici che hanno letto il romanzo hanno trovato che Marco mi somigli. Io invece, dovendo scegliere, mi sento più Mirko».

Suona bizzarro perché nelle peripezie di Marco Moschini e nelle sue memorie ricorrenti Bisio riflette, con disarmante autoironia, molto del suo percorso. È un alter ego sfigato, noto attore milanese ma sul viale del tramonto, un ex che incontriamo simbolicamente relegato a fare il defunto in una pellicola di serie B. È un pretesto per confessare di straforo quel tipo di verità che nessuno dice mai volentieri. Quel «maledetto Oscar», per dire. Anche Marco, come il Bisio di Mediterraneo, era stato in un film premiato dall’Academy. «Da allora la sua carriera aveva avuto una svolta importante. In peggio.

I critici lo avevano aspettato al varco, pronti a uno scivolone, che puntualmente era arrivato». Ai selfie, altro corollario sciagurato della celebrità, il libro riserva una trattazione tanto dettagliata quanto esilarante, un ripasso personalissimo delle situazioni più estreme. Ma è un rispecchiamento lucido, consapevole: «Lo sa anche lui che quando nessuno glieli chiederà più sarà peggio: probabilmente ci rimarrà male, gli mancheranno».

Questa parziale trasmigrazione nell’attore Moschini è anche il modo per fare i conti con qualche privata tappa miliare di crescita, come la spartizione di incarichi nella policizzatissima quinta D del liceo scientifico Luigi Cremona: un vero governo ombra sui banchi di scuola. O come i cazziatoni di Strehler al figurante imbranato che gli guastava la scena de La Tempesta e di El nost Milan, con conseguente espulsione a vita del reo dal Piccolo Teatro.

È un gioco sottile di alternanza tra pudore e impudicizia, verità e fantasia sfrenata, condito dalle fantasmagoriche esercitazioni sessual-culinarie con la vicina Luciana e da un pirotecnico cast di contorno.

Sentirsi Mirko

Claudio Bisio però «si sente Mirko», l’altra metà di un doppio eterogeneo che ancora una volta rinvia a Calvino (Il visconte dimezzato) o magari all’Armando di Enzo Jannacci. Mirko Mazzotta viene da Lecce, è l’anonimato fatto persona, non ha nessun talento percepito e tra le sue disgrazie annovera «un nome adespota, cioè privo di santo patrono».

Con un nome così sei costretto a festeggiare l’onomastico a Ognissanti, «che è come morire in guerra da anonimo e vedersi commemorare come Milite Ignoto». Diversamente da Marco, col suo grande avvenire alle spalle, Mirko è deciso a diventare famoso. Ci riuscirà grazie a una (s)fortunata serie di eventi, a una svista ortografica del suo agente arruffone e a quella babbioneria di massa che può trasformare un billboard a caratteri cubitali nell’apparizione della Madonna di Fatima.

Morale da meditare: «L’uomo senza qualità vince sempre». Bisio si guarda bene dal filosofeggiare, ma il trionfo di MirkoMax – il nome d’arte che conquisterà – è l’epitome del successo come oggi lo conosciamo, quel successo che «non logora chi ce l’ha».

La domanda è: perché Bisio si sente Mirko? «Probabilmente per la cretineria, e per quel famoso petofono che è il suo scacciaguai. È un’app fantastica del cellulare, si chiama Fart Cushion». Per la cronaca, l’app è l’evoluzione di quell’aggeggio antidiluviano che produceva pernacchie e scoregge sonore: a usarlo in classe garantiva il sette in condotta. Mirko è il personaggio in cui l’autore vorrebbe segretamente incarnarsi: «Più leggero, più inconsapevole, meno malinconico». Per simpatia gli presta, letterariamente, il labrador di famiglia. Ma coltiva le utopie di scomparsa di Marco. È una scissione intrigante.

Alla base del libro, nato in gran parte lungo le tappe dell’ultimo tour teatrale, c’è l’evidente divertimento di scrivere. C’è il piacere di giocare col cinema, con la follia ipnotica dei Monty Python, coi set balordamente riciclati dallo show business nostrano, col filminbiancoenero (scritto proprio così) che farà la fortuna di Mirko – La ragazza del secolo, George Cukor 1954 –  e con i tic di altri famosi, da Nanni Moretti a Gabriele Muccino, «che se la tira con storie tese ma per una risata darebbe un rene».

Rovesciamenti di prospettiva a raffica, fino all’ultima pagina. Può diventare un film? «Non l’ho scritto per quello. Ci penso magari tra un paio di mesi, il libro deve respirare di suo». L’ironico selfie dell’opera, con puntuale understatement, è un inciso in finale: «Il successo di un libro è dato o dalla sua grande qualità o dai suoi bassi costi di produzione. Ecco, in questo caso punterei decisamente sui bassi costi». 

© Riproduzione riservata