Undicesima puntata del romanzo di Antonio d’Orrico. Riassunto delle precedenti. Nella notte tra il 6 e il 7 settembre 1985, un cronista, inviato a Siena dove Italo Calvino sta per essere operato al cervello, riceve l’improvvisa visita dell’amico e collega Giorgio S. I due tirano mattina parlando di uno strano traffico di manoscritti
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Le chiacchiere della notte ci avevano messo fame. Un giornalista marchettaro, di quelli che infilano pubblicità a tradimento negli articoli, scriverebbe che facemmo una sciccosa colazione da Scudieri in Piazza del Campo: cappuccini, babà per Giorgio («Doppio rhum, cortesemente») e cornetto per me. Aspettando che ci servissero, Giorgio fece un salto a comprare i giornali. Non ci crederete, ma provai un senso di vergogna vedendo il mio nome in prima pagina. Lo dissi a Giorgio. Fu laconico: «Si scrive per timidezza».
Accompagnai il mio vecchio amico a riprendere la sua Austin Mini Cooper degli anni Sessanta. Era verde inglese e mi ricordava sempre le automobiline che girano sulle giostre. Gli augurai buona fortuna per l’appuntamento con il misterioso informatore di Grosseto che prometteva rivelazioni sul caso dei travestiti e, pensando ai terroristi che lo avevano condannato a morte, lo salutai con un filo di malinconia.
Tornato in albergo (doccia bollente, rasatura, camicia pulita), stavo annodando la cravatta davanti allo specchio quando bussarono alla porta. Trovai che Vincenzoni stava esagerando con il suo famigerato Effetto. Andai ad aprire. Un profumo di sandalo citrino bruciato invase la stanza, probabilmente ne aveva una bottiglia nella Austin e se ne era versato una dose doppia come il rhum nel babà.
Il manoscritto
«Dove lo tieni il manoscritto di Calvino?» domandò Giorgio.
«Ce l’ho qui».
«Non mi pare un posto sicuro. Forse è meglio se lo dai a me».
Era il maggior esperto di cronaca nera da me conosciuto e dovetti convenire che aveva ragione. Aprii la piccola cassaforte nell’armadio della camera. Per farci entrare il manoscritto avevo dovuto arrotolarlo.
Giorgio lo posò sulla scrivania, lo stirò con le mani e con un’occhiataccia mi fece capire che trovava irriguardoso il modo in cui avevo trattato il prezioso fascicolo. Poi se lo infilò dietro la schiena tra pantaloni e camicia, intrecciò l’indice e il medio in segno di scongiuro, era una delle persone più superstiziose della terra, e disse: «Non ti invidio. Sei davanti a un terribile dilemma: se Calvino muore, tu con questo manoscritto fai lo scoop della vita». Poi guardò l’orologio: «Si è fatto tardi. Vado. Tu corri in ospedale e porta i miei saluti a Ginevra».
Nella notte gli avevo parlato della gentile e graziosa infermiera che mi aveva prestato la vecchia Underwood per scrivere l’articolo. Giorgio si era messo subito a perorare la causa del mio fidanzamento con Ginevra. Sapeva delle mie traversie sentimentali (Lauretta, lo psicoanalista morto, ecc.) e riteneva che era tempo di voltare pagina. Secondo lui, la gloriosa Underwood, un simbolo potentissimo per un aspirante scrittore come me, era la prova inequivocabile che quella ragazza era la donna della mia vita.
Ginevra era nella stanza delle infermiere, lì dove l’avevo lasciata la notte precedente.
«Novità?» le domandai.
«Il primario ha appena visitato il tuo scrittore. Se mi offri un caffè, ti racconto tutto. Ma un caffè vero, non delle macchinette».
Così mi ritrovai in Piazza del Campo, stavo diventando un habitué.
«Scudieri o Nannini?» chiesi a Ginevra (la classica domanda in cui il giornalista marchettaro di prima avrebbe inzuppato la sua penna mercenaria). Lei scelse Nannini spiegandomi che Gianna, la figlia del proprietario dello storico locale, era la sua cantante preferita.
C’era un bel sole e ci mettemmo all’aperto. Mi guardai intorno e saltai sulla sedia. Giorgio, seduto a un tavolo poco lontano, stava leggendo qualcosa. Qualcosa che mi era familiare: il manoscritto di Calvino!
Chiesi scusa a Ginevra e mi precipitai da Giorgio. Quando mi vide, sorrise come uno colto con le mani nella marmellata. Lo fissai con aria interrogativa. Non doveva correre dal misterioso informatore? Perché era ancora a Siena?
Come se mi avesse letto nel pensiero disse: «Non ho resistito. Mi ero fermato a fare benzina andando a Grosseto. C’era coda al distributore e ho aperto il manoscritto. Mi ha preso subito e, visto che era ancora presto per il mio appuntamento, sono tornato qui per continuare a leggere più comodamente. Le pagine sulla morte del sassofonista sono fortissime».
La strega cattiva
Stava parlando dell’inizio del romanzo. Celebre in tutto il mondo, adorata da stuoli di fans, la rockstar sudamericana Mario Belafonte (cognome d’arte scelto in omaggio al suo idolo, il grande Harry Belafonte) ha scoperto che la sua vita, invidiata da tutti, lo annoia a morte. Un giorno riceve l’invito di una bellissima miliardaria che è pazza di lui e vuole ospitarlo nella sua isola al largo del Brasile per quanto tempo vorrà. «Anche tutta la vita» ha specificato, tra parentesi, la donna nella lettera inviata al sassofonista.
La miliardaria Aleixa è nota per essere una collezionista molto speciale. Di solito le persone dotate di fortune come la sua si dilettano a fare incetta di capolavori di grandi pittori. Ma lei non colleziona quadri, colleziona amanti famosi. E non lo fa in segreto, bensì pubblicamente.
Girano voci su Aleixa che la dipingono come una mantide religiosa: molti suoi amanti, infatti, dopo averla conosciuta sono morti (in circostanze strane, secondo i giornali). Belafonte è al corrente delle dicerie, ma decide di accogliere lo stesso l’invito. È una rockstar, seppure controvoglia, e a una rockstar si addice una sfida così allettante e rischiosa. Cosa c’è di meglio, per vincere la noia che gli attanaglia l’anima, di un’avventura con la bellissima miliardaria?
E poi Belafonte è lusingato all’idea di entrare nel club esclusivo degli amanti di Aleixa. Si vocifera che di quel ristretto circolo avrebbe fatto parte persino John Fitzgerald Kennedy, il quale sarebbe morto a Dallas per colpa della mantide religiosa brasiliana e Lee Oswald sarebbe stato soltanto lo strumento del nefasto destino riservato ai partner della donna. Almeno così aveva sostenuto Jimmy Davenport del New York Times in un articolo che aveva fatto il giro del mondo e sfiorato il Pulitzer. Aleixa sarebbe andata a letto giovanissima con l’affascinante Jack, il “Mr. President” a cui non resistette nemmeno Marilyn Monroe. Addirittura, sempre secondo il racconto di Davenport, Kennedy era il primo uomo a cui Aleixa aveva schiuso i suoi petali (così aveva scritto il collega newyorkese in un soprassalto poetico). Kennedy era stato il pezzo numero uno della collezione della miliardaria.
È chiaro che Calvino, appassionato di fiabe, ha attinto a piene mani, nel tratteggiare il personaggio della maliarda Aleixa, alle figure della regina cattiva e della strega malefica. E si è divertito come un pazzo a farlo. D’altra parte, la voglia di divertirsi, di uscire dal seminato, di cambiare il suo stile consueto, era il traguardo che si era prefisso nel romanzo inedito.
Un amico
Quando, per ragioni che qui sarebbe lungo spiegare, Calvino mi dette da leggere il suo romanzo pop, mi confidò perché lo aveva scritto: «C’è una cosa spiacevole nella mia vita e credo nelle vite di chiunque sia baciato dal successo. Ricevo tante telefonate da persone che si professano amiche e vogliono sempre un favore: scrivere una prefazione, partecipare a un convegno, firmare un appello. Mi cercano tutti perché hanno bisogno di qualcosa e io provo una grande amarezza. Mai nessuno che chiami per farmi la semplice domanda che fanno gli amici veri: “Italo, che ne dici di andarci a bere una birra assieme?”. Ecco, questo romanzo che ho scritto è un amico con cui ho bevuto una birra assieme per tenerci compagnia e farci due risate».
Ero imperdonabile. Avevo piantato Ginevra sola al tavolo. Però ero insospettito dal comportamento di Giorgio. Proprio lui di cui mi fidavo ciecamente, il classico amico di cui parlava Calvino, quello che ti cerca non per chiederti un favore ma per proporti una birra. Perché si era offerto di tenere lui il manoscritto e si era messo a leggerlo con tanta urgenza? Cosa stava architettando? Voleva farlo lui lo scoop di cui mi aveva parlato?
(Undicesima puntata - continua)
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