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«The macho thing is overrated», Questa cosa del macho è sopravvalutata, dice Clint Eastwood verso il finale di Cry Macho, il film con cui, a 91 anni, guarda alla sua leggenda e alla propria vecchiaia insieme con indulgenza e con autoironia.
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C’è una percentuale di zucchero in eccesso da “buddy movie” dei vecchi telefilm Disney. Oggi però il vecchietto si mette in piazza com’è, senza filtri. E c’è quel respiro classico di regia che ti riconcilia col cinema.
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È il medagliere etico, oltre che artistico, che in questi 91 anni ha accumulato. È l’uomo che si prende i rischi, tratta materie tabù per Hollywood. È quello che con Gran Torino ha riscritto il codice dell’antirazzismo senza pistolotti.
«The macho thing is overrated», Questa cosa del macho è sopravvalutata, dice Clint Eastwood verso il finale di Cry Macho, il film con cui, a 91 anni, guarda alla sua leggenda e alla propria vecchiaia insieme con indulgenza e con autoironia.
Vi diranno che la grinta rocciosa del vecchio repubblicano a vita in quest’operina minore da Sunset Boulevard di carriera si è rammollita. Ma c’è un cuore struggente, un ragionare in controluce sulla figura iconica di “macho movie star” che ha incarnato per mezzo secolo e una disposizione a mettere in piazza i segni pesanti del tempo che passa che John Wayne, tanto per fare un esempio, non si sarebbe mai perdonato.
Senza filtri
«The macho thing is overrated», detta oggi da Clint, è una battuta epica, che merita di rimpiazzare certe sortite del suo antico “Dirty” Harry Callaghan entrate nel glossario comune, come «Coraggio, fatti ammazzare», o l’ancora più mitica «Un uomo deve conoscere i suoi limiti». Perché quella di Clint è per natura un’epica dissonante. Regola d’oro: mai andare sopra le righe, mai dipingersi bigger than life.
Clint Eastwood ha recitato più di chiunque altro a memoria di cinema nei film diretti in proprio, e mai nessuno, prima di lui, ha piazzato in sceneggiatura un bilancio personale analogo a quello “infiltrato” in questo suo trentanovesimo film da regista.
«Una volta eri un duro, un macho, ora sei debole», gli rimprovera il ragazzino suo compagno di viaggio, che per un momento incarna il suo pubblico di mezzo secolo. Risponde, Clint, che questa cosa del macho è sopravvalutata. E aggiunge: «Da giovane pensi di avere tutte le risposte, ma quando diventi vecchio ti accorgi che non ne hai nessuna». Non è il Mike Milo di Cry Macho che parla, è Clint, in prima persona.
Ci sono peccati di ingenuità che fanno classificare Cry Macho come un capitolo decisamente minore della filmografia di questo signore che appartiene al cinema del passato ma ha sempre saputo parlare – d’istinto – al presente. C’è una percentuale di zucchero in eccesso da “buddy movie” dei vecchi telefilm Disney. Oggi però il vecchietto si mette in piazza com’è, senza filtri.
Il passo da vecchio cowboy porta il peso di una schiena incurvata. La sua voce si è fatta più fragile, da cristallo incrinato. Il Cavaliere Pallido oggi ha il volto di un nonno, con la pelle prosciugata intorno agli zigomi che hanno fatto sognare generazioni di donne. Gli occhi di ghiaccio – sempre da titolo – sono come annebbiati. E proprio per questo lo apprezzi ancora di più. Non è facile guardarsi in faccia quando ti inoltri nella terza età.
Fantasmi del passato
C’è una scelta autoironica già nel fatto che Macho è il nome di un pollo – pardon – un gallo da combattimento. Il romanzo del 1975 di N. Richard Nasch da cui il film è tratto (tradotto per l’occasione e pubblicato da Libreria Pienogiorno) sarebbe risultato datato già vent’anni fa, ma era stato opzionato dalle Majors, nel corso del tempo, per Burt Lancaster, Roy Sheider, Arnold Shwarzenegger, tra gli altri.
Eastwood, che lo amava da sempre, aveva pensato a Robert Mitchum. Oggi, riscrivendolo con Nash e col suo sceneggiatore di The Mule. Il Corriere e di Gran Torino, gli porta in dote una saggezza quieta che fa perdonare anche certe incongruenze da limiti d’età superati.
Il momento più imbarazzante per lo spettatore è un tentativo – fallito – di seduzione. C’è una procace dark lady, facoltosa e discinta, che prova a portarsi a letto un Clint palesemente fuori corso «con le sue ossa artritiche», come ha ironizzato pesantemente il critico di The Hollywood reporter. Ma questi ultimi fuochi di vanità senile sono una debolezza così umana e veniale che puoi sorridere, però fanno tenerezza.
E a riscattare la gioia del film ci sono quegli accordi di slide guitar, prima dei titoli di testa (la musica, mai casuale per il musicista Clint, è di Mark Mancina), e i ritmi, e quel territorio ai confini tra Texas e Messico che gli è geograficamente ed emotivamente così familiare, e i cavalli. C’è quel respiro classico di regia che ti riconcilia col cinema.
È banale parlare di canto del cigno o di film-testamento, non è questo il caso. Eppure in Cry Macho affiorano i fantasmi di tanto passato, anche esplicitamente citato: I ponti di Madison County, Un mondo perfetto, Honkytonk Man.
La storia
La storia è da stereotipo hollywoodiano. Mike Milo, ex star da rodeo, è un rudere, un uomo spezzato da una caduta da cavallo e dalla morte tragica di moglie e figlio.
Quando il vecchio datore di lavoro gli chiede di prelevare in Messico il figlio ragazzino vessato da una madre indegna, non può dire di no (va detto che Eastwood nel film ha nobilitato il suo Mike, che nel libro è già al corrente del giro di soldi legato all’operazione).
Debellati gli scagnozzi della madre-padrona, le avances sessuali della medesima e le resistenze del tredicenne ribelle, il viaggio comincia. Con gallo annesso, perché è inseparabile dal ragazzino (Eduardo Minett, poco convincente nel ruolo, ma star delle serie tv messicane).
È il caso di ricordare che quando Eastwood, al culmine della sua carriera da “duro”, pretese un orango come co-protagonista, il film era Filo da torcere, pensarono che desse i numeri. Ma il film incassò, allora, 78 milioni di dollari.
Il viaggio verso il Texas si prolungherà oltre misura, meno per colpa delle insidie impreviste e degli agguati dei “villains” che per l’oasi di pace rappresentata da uno sperduto paesino rurale dove Mike darà fondo ai suoi talenti di domatore di mustang selvaggi, diventerà per i contadini del vicinato una sorta di Dottor Dolittle guaritore di pecore, cani e maiali e conquisterà i favori di una matura ostessa, Natalia Traven, di cuore tenero.
Clint adatta Mike alla sua tarda età: si concede più pisolini che scazzottate. Ma non rinuncia – una volta aggiustato il juke box arcaico della taverna – ai “lenti” romantici dimenticati dai tempi di Meryl Streep e de I ponti di Madison County.
Utopia vivente
È impossibile non riflettere sul fatto che quel Messico miserabile ma accogliente è lo stesso blindato da Donald Trump dietro la barriera del Muro di Tijuana. È una costante, questa, che ha reso sempre unico e trasversale il cinema di Clint Eastwood, roccioso signore che ha conciliato l’alone da icona pop con un’autorialità asciutta, esemplare, senza fronzoli.
Ma soprattutto non esiste nessuno che come lui, pur professando una passione politica di parte che lo ha portato a esporsi anche per i candidati repubblicani più controversi – come Trump – sia riuscito ad abbattere ogni barriera partitica e ideologica. Clint è di tutti. In questi tempi di scontri frontali e generalizzati, è un’utopia vivente.
C’era una battuta chiave all’inizio del suo Richard Jewell che molto racconta dell’uomo. Un grande Sam Rockwell esorta l’ingenuo Richard, schernito da tutti perché ciccione e ottuso – ma col sogno di diventare un poliziotto vero – a non lasciarsi trasformare in un “asshole”, uno s.., perché «basta un po’ di potere per fare di una persona un mostro».
È l’idea che Clint Eastwood coltiva da sempre, e che ha declinato innumerevoli volte: il vero eroe è l’ordinary man, l’uomo comune che – parole sue – «attraversa la vita e lascia il segno da qualche parte». Ha in odio, Clint, quelli che chiama «gli eroi da fumetto». Ma chi fa bene il proprio lavoro è condannato a scontrarsi con il Potere, anzi i Poteri.
C’è un’onestà di pensiero venata di anarchia, nella Weltanshauung che il vecchio Clint sbandiera senza badare alla correttezza politica, che tocca il cuore. Anche chi ha trovato imbarazzanti al limite del trash le sue “interviste alla sedia vuota” sotto elezione di Obama e l’endorsement a Trump non può non sentirlo affine e fratello. È un paradosso, ma in un mondo migliore vorresti che diventasse la norma.
Spirito ostinato
Non è soltanto quel suo essere «troppo individualista per essere di destra o di sinistra», come si definì in una lontana intervista. È il medagliere etico, oltre che artistico, che in questi 91 anni ha accumulato. È l’uomo che si prende i rischi, tratta materie tabù per Hollywood e porta all’Oscar l’eutanasia di Million Dollar Baby. È l’uomo che ha raccontato Iwo Jima dalla parte dei giapponesi, i nemici, perché «tutto si riduce a giovani uomini che vengono mandati a morire prematuramente, non importa da che parte stai»: una rivoluzione, per gli standard del cinema bellico.
È il cineasta che in Mystic River ha riunito – e portato all’Oscar in coppia, miglior attore e miglior attore non protagonista – Sean Penn e Tim Robbins, i due campioni dell’opposizione hollywoodiana alla guerra di Bush, quando tutte le Majors stracciavano per rappresaglia i loro contratti. È quello che con Gran Torino ha riscritto il codice dell’antirazzismo senza pistolotti, e ha dimostrato ai suoi connazionali che il western poteva tornare arte da grande business, con Gli spietati.
Stendiamo un velo pietoso sulla cecità della Mostra di Venezia, che al tempo rifiutò Gli spietati come cinema “di genere” : non è una leggenda metropolitana. In J.Edgar, su Hoover, mette a fuoco da temerario la sessualità gay di una icona dell’establishment.
Il pistolero afasico che Sergio Leone liquidava affettuosamente come «un blocco di marmo» dirige in realtà come recita: in economia e di sottrazione. È come il jazz. Perché in fondo – questo è il suo segreto – Eastwood è e resta essenzialmente un musicista. Il suo cuore batte con Bird, con le note di Charlie Parker e con quelle che ha sempre composto per i suoi film.
Per me, sullo schermo, la sua immagine più autentica è quella di Piano Blues, l’episodio che Martin Scorsese gli affida nella sua serie documentaria sul blues. Clint al piano, col suo coetaneo Ray Charles, e intorno a loro fantasmi leggendari, incancellabili.
Da trasgressore, ha impedito che mi arrestassero durante uno di quegli eventi blindati di Hollywood dove se non rispetti il cerimoniale e il posto che ti è stato assegnato – a distanza di sicurezza dalle celebrities – ti sbattono in galera e basta. Trasgredire, ho capito allora, per lui è un piacere, il suo miglior vizio e la sua peggiore virtù.
Chissà se pesa quel lembo di terra che da Monterey si inoltra verso le colline circostanti, così caro a lui – che ci ha messo radici e che è stato sindaco di Carmel – come a John Steinbeck: anime diverse ma stesso spirito ostinato, da non allineati. Due outsider.
Lo stile e i maestri
La sua Bibbia, da cineasta, la riassume nelle poche folgoranti parole che aprono la monumentale docuserie Clint Eastwood. A Cinematic Legacy, di Gary Leva, presentata in anteprima al Torino Film Festival e già disponibile on demand su molte piattaforme. «Se la sceneggiatura è buona», dice, «hai fatto già il 40 per cento. E se scegli bene gli attori hai un altro 40 per cento. Ma resta sempre almeno un 10 per cento che puoi rovinare».
Ha imparato il mestiere da Don Siegel, ma l’ironia e la libertà da Sergio Leone. Non a caso sono i due nomi scolpiti, simbolicamente, sulle lapidi di scenografia del suo primo western da regista, Lo straniero senza nome. E sono anche le due dediche sui titoli di coda de Gli spietati.
I 135 minuti della serie di Leva non aggiungono poi molto a quanto si sa. L’aneddoto di Clint, su un set diretto da altri, quando il regista gli chiede un terzo ciak, e lui lo prende da parte: «Ehi, ho solo due modi di fare le cose, e li hai visti tutti e due».
La memoria corre agli scherzi sul Clint “spaghetti” italiano che aveva due espressioni, “col cappello e senza”. Chissà se ne ha fatto tesoro. La sua modestia: Meryl Streep ricorda che dall’incursione romantica del loro film tagliò tutte le sue (di lui) performance più intense, «da statuetta». Gli sembrava che appesantissero la narrazione.
Ci sono testimonianze acute, come quella di Richard Harris: «Viene dal vecchio modo di fare cinema, ma fa a pezzi la tradizione». O di Steven Spielberg: «È un camaleonte: è la sceneggiatura a determinare il suo stile».
E si racconta di quelle atmosfere pacate, senza alzate di tono, come la sua voce di sempre, che gli fanno cornice: sul set non usa mai i convenzionali “action” e “cut”, preferisce dare il via con un «quando volete!» e interrompere con un cortese «dovrebbe andar bene».
Scopriamo che Clint Eastwood fa pochissimi ciak e ignora le prove. «Prova pure se vuoi, io giro», diceva a Hilary Swank per Million Dollar Baby. Ma rimpiange di non aver mai eguagliato la sobrietà del suo mentore Don Siegel: «Non riesco ad essere spartano come lui».
Il jazz non spreca le note, per definizione. Ne fa tesoro, le amplifica e le valorizza. Il grande limite di questo fluviale omaggio al gigante chiamato Clint Eastwood è di rimuovere la sua devozione alla musica. The macho thing is overrated, forse da sempre, anche perché è questo aspetto a tradire una dolcezza segreta. Per un ritratto da consegnare agli annali, è un limite imperdonabile.
N. Richard Nash è autore del libro “Cry Macho”, tradotto da Sara Puggioni e pubblicato da Libreria Pienogiorno in occasione dell’uscita dell’omonimo film diretto e interpretato da Clint Eastwood, nelle sale dal 2 dicembre
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