La circolazione transnazionale dei testi è una parte integrante della lotta femminista. E anche l’attenzione alla traduzione ha una lunga storia, che inizia dagli anni Settanta. Oggi le case editrici sensibili al tema spesso lavorano con collettivi
Nell’estate del 1974 in Italia venne pubblicato da Feltrinelli Noi e il nostro corpo, la versione italiana di Our Bodies, Ourselves, il celebre manuale sulla sessualità femminile firmato dal Boston Women’s Health Book Collective. A portarlo in Italia era stata tempo prima Maria Teresa Fenoglio, femminista torinese che si era presentata al Collettivo Comunicazioni Rivoluzionarie, di cui faceva parte, con un pamphlet da tradurre su clitoride e orgasmo femminile.
Angela Miglietti, che sapeva l’inglese, si era offerta volontaria, avviando un percorso collettivo di trasposizione in italiano del sapere «delle donne per le donne» raccolto oltreoceano. Così, quando l’opuscolo divenne un libro di enorme successo negli Stati Uniti e Feltrinelli decise di pubblicarlo, il collettivo di Boston riuscì a imporre che la traduzione venisse affidata a Miglietti e alle femministe che se ne erano prese cura al di fuori dei canali ufficiali.
Questa vicenda che Miglietti, morta nel 2011, ricorda in un’intervista del 2007, è un esempio di quella che viene definita “traduzione femminista”, un approccio alla traduzione che si fa atto politico non solo perché mosso dalla volontà di condividere un messaggio di lotta oltre le barriere linguistiche, ma anche per l’attenzione al linguaggio e al contesto di chi scrive e chi traduce. La traduzione femminista torna ora più che mai attuale visto il numero crescente di testi femministi tradotti e pubblicati in Italia spesso con grande ritardo.
Una forma di attivismo
«Oggi, nell’ambito del femminismo intersezionale, si parla più che altro di traduzione “transfemminista”», spiega Laura Fontanella, traduttrice e autrice de Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer. L’approccio femminista alla traduzione ha iniziato a venire teorizzato a livello accademico alla fine degli anni Settanta in Canada, nei cosiddetti Feminist translation studies che riflettono sul ruolo delle donne come traduttrici e su come la traduzione sia un’interpretazione del testo che può alimentare schemi patriarcali. «All’epoca il focus era sulle donne, spesso bianche e cisgender», dice Fontanella, «oggi si tiene conto delle soggettività trans, non binarie, delle persone razzializzate o con disabilità».
Parte integrante dell’approccio femminista alla traduzione è la necessità di una circolazione transnazionale dei testi. Se, negli anni Settanta, i pamphlet e i ciclostili passavano di mano in mano nelle assemblee, l’avvento del web ha cambiato le logiche di questa circolazione sotterranea, gratuita e autonoma rispetto alle dinamiche editoriali mainstream.
«I blog hanno formato delle reti di produzione e diffusione di pensiero politico», spiega feminoska, traduttrice militante e mediattivista femminista sotto pseudonimo che ha tradotto o partecipato alla traduzione di alcune tra le più amate autrici femministe pubblicate in Italia in questi anni, tra cui bell hooks per Meltemi e Sara Ahmed per Fandango.
Nel 2016, insieme ad altre traduttrici, ha aperto il blog Les Bitches, un collettivo transfemminista e antispecista di traduzioni militanti (ce ne sono altri in Italia, più o meno attivi, come Onna Pas, Plumas Traidoras, Ideadestroyingmuros). Su Les Bitches è stato pubblicato, tra gli altri, il manifesto Xenofemminista di Helen Hester poi entrato a far parte di Xenofemminismo (NeroEditions nel 2018), un testo punto di riferimento nel femminismo contemporaneo.
Il mondo digitale – prima tramite i blog, e oggi sui social – è diventato, come racconta feminoska, il luogo dove reperire testi femministi stranieri d’avanguardia, scambiarsi consigli di lettura e fare ricerca, magari a partire dalle bibliografie o dai paper accademici messi a disposizione gratuitamente.
«Quando troviamo un testo che secondo noi va tradotto, pubblichiamo un appello su Facebook per cercare persone con competenze linguistiche che vogliano contribuire», dice. «È una forma di attivismo. Moltissime persone vogliono mettere a disposizione le loro energie e il loro tempo gratuitamente per tradurre qualcosa che reputano fondamentale per il pensiero femminista. Il fatto che sia un lavoro collettivo, poi, aiuta la diffusione».
I filtri
Alla base della traduzione transfemminista c’è l’idea che chi traduce sia influenzato dalla propria identità ed esperienza e possa alimentare narrazioni stereotipate e consolidare le strutture di potere della società. Per questo si punta sul lavoro di squadra che includa punti di vista diversi e persone legate ai contesti e alle tematiche trattate.
«Bisogna essere consapevoli dei filtri attraverso cui inevitabilmente guardiamo la realtà», dice Fontanella, «Pensiamo alla trasposizione in italiano di una lingua neutra rispetto al genere come l’inglese o di termini legati al mondo trans e queer o a contesti culturali specifici».
Di fronte al pronome neutro inglese “them” qualcuno potrebbe scegliere di usare un giro di parole o magari ricorrere a un segno tipografico come l’asterisco o la schwa, qualcun altro potrebbe invece ignorare il neutro e ridurre il tutto al maschile sovraesteso.
Le scelte di traduzione dovrebbero tenere conto del pensiero di chi scrive e del contesto in cui questo viene traghettato: nel 2006 una prima traduzione di Undoing Gender di Judith Butler aveva optato per il titolo La disfatta del genere (Meltemi) ritradotto poi in Fare e disfare il genere nel 2014 (Mimesis) per meglio esprimere la tesi del saggio.
I collettivi
Non è detto, tuttavia, che quando si passa dai testi militanti alla pubblicazione di un libro si tenga conto di questi elementi. «Dipende dalla sensibilità delle case editrici e da chi scelgono di coinvolgere», spiega Laura Fontanella.
Meltemi, ad esempio, per la collana Culture Radicali, diretta dal gruppo di ricerca Ippolita, ha fatto una scelta precisa appoggiandosi a studiose, gruppi di lavoro e collettivi transfemministi per la traduzione di autrici come bell hooks, Audre Lorde, Monique Wittig, Gloria Anzaldua e Simone Browne. «Non sempre avviene», dice feminoska, «quindi molto dipende dal nostro fare rete coinvolgendo altre compagne».
Quando, però, una casa editrice decide di affidarsi a una traduzione transfemminista, «si vede dal modo in cui l’intero libro è confezionato»: può capitare di imbattersi in prefazioni che ricostruiscono la storia politica del testo, note sul processo di traduzione, sulle scelte linguistiche e il punto di vista di chi traduce.
Spesso a firmarle sono pseudonimi o gruppi militanti, come il collettivo Onna Pas che, in Appunti per un dizionario delle amanti di Monique Wittig, scrive «Ci svincoliamo totalmente dal possesso della traduzione e rivendichiamo un glorioso anonimato: questa traduzione non appartiene a nessuna, perché è di tutte».
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