Promettere tanto e mantenere poco è ciò che caratterizza queste diete scarsamente condivise dalle comunità scientifiche. E, recentemente, i punti deboli del regime iperproteico sono stati ribaditi in uno studio condotto della Stanford University e pubblicato sulla rivista Circulation
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
In quanto a miti fasulli e false convinzioni, il settore alimentare supera ogni record sia per varietà che per invenzioni sempre nuove e sorprendenti. Di bufale nel piatto se ne incontrano davvero in ogni dove: fra amici così come nei colloqui con i pazienti la loro dilagante presenza non è altro che il riflesso dello scarso livello di informazione unito alla facilità con la quale certe allettanti teorie riescono a radicare in un immaginario collettivo molto vulnerabile. E lo sa bene chi oggi si occupa di divulgazione e informazione nel delicato settore della salute che, con tanto di competenze scientifiche, si ritrova costantemente a competere con il “dottor web”.
In questo panorama si inserisce il vasto scenario dello svilimento commerciale della dietologia, dove impazzano modelli alimentari stravaganti che poco tutelano la salute dei consumatori. Il pubblico è sempre più alla ricerca di una dieta che, con il minimo sforzo, miri ad un calo ponderale immediato. Tra queste, una tendenza che è dura a morire riguarda le diete iperproteiche e il loro effetto dimagrante.
Prima di entrare nel merito delle diete iperproteiche è opportuno chiarire un punto: cosa significa davvero dimagrire?
Quando ci pesiamo su una bilancia comune, questa pesa il nostro organismo in toto che come una grande scatola contiene muscoli, grasso, acqua, ossa, liquidi, organi e quant’altro. E tra queste componenti, quelle che sono maggiormente soggette a variazioni individuali sono muscoli, grasso e acqua.
Ora, dimagrire non vuol dire vedere solo scendere l’ago della bilancia ma, in maniera più precisa, perdere massa grassa.
Le diete tutte proteine
Le diete iperproteiche hanno un effetto rapido perché innescano un meccanismo chiamato chetosi a seguito del quale l’organismo entra in uno stato di allerta metabolica.
Nella cosiddetta fase di attacco, la quota di carboidrati scende anche sotto i 50 gr al giorno, mentre è noto che il minimo necessario per le necessità del tessuto nervoso e dei globuli rossi è di circa 150gr al giorno. A seguito della netta limitazione dei carboidrati si formano i corpi chetonici che vengono utilizzati a scopo energetico da parte dei tessuti. Tutto ciò rappresenta una specie di leggera intossicazione non fisiologica, che, se prolungata, può provocare vari effetti sfavorevoli. Tra cui un impoverimento del patrimonio proteico dell’organismo. Un vero paradosso con una dieta iperproteica.
Come i principi di biochimica insegnano, la chetosi ostacola la sintesi di nuove proteine e favorisce la scissione di parte di quelle già presenti (soprattutto muscolari) per permetterne l’utilizzazione sia al fine di produrre energia (visto che i carboidrati sono pochi), sia per ottenere aminoacidi da trasformare proprio in carboidrati, con un processo denominato gluconeogenesi. Chiaramente così vengono intaccati anche i muscoli e, a quanto risulta dagli studi effettuati, la perdita di peso avviene quasi più a spese dei tessuti magri e dell’acqua che dello stesso tessuto adiposo. Non proprio un dimagramento ideale.
Promesse non mantenute
Promettere tanto e mantenere poco è ciò che caratterizza queste diete scarsamente condivise dalle comunità scientifiche. E, recentemente, i punti deboli del regime iperproteico sono stati ribaditi in uno studio condotto della Stanford University e pubblicato sulla rivista Circulation. I cardiologi dell’American Heart Association lamentano la dilagante disinformazione che promuove modelli che si discostano dai criteri scientifici di una dieta sana e rispettosa della salute del cuore.
Sotto il profilo nutrizionale infatti, la scarsissima presenza di sostanze benefiche apportate dai prodotti vegetali, derivante dalla pressoché nulla presenza di frutta, cereali e ortaggi, fa sì che queste diete siano povere di calcio, magnesio, potassio, sostanze antiossidanti, alcune vitamine e fibra ed eccessivamente ricche di grassi saturi, proteine, sodio e basi puriniche (di cui l'acido urico ne è il principale catabolita). Tutto ciò è traducibile in un aumento della colesterolemia, maggiore rischio cardiovascolare, gotta, ipertensione, osteoporosi, sovraccarico renale ed epatico.
I fatti osservati nella pratica clinica sono poi confermati e validati da numerosi studi che hanno accertato che la perdita di peso repentina delle diete iperproteiche non viene mantenuta nel lungo periodo. Si è visto infatti che in un anno, il peso perso con uno schema del genere è esattamente lo stesso di quello che si può perdere con una dieta ipocalorica equilibrata. Ma non solo: il danno oltre la beffa è che il recupero di ciò che si è perso è praticamente inevitabile, ed avviene anche in tempi piuttosto brevi. Questo perché un altro difetto di questi sistemi è che non insegnano un modello di alimentazione utile per il post-dieta.
In generale, tutte le diete commerciali, iperproteiche comprese, non sono mai una buona scelta se si vuole perseguire uno stile di vita che mantenga contemporaneamente la salute fisica, mentale e sociale. La completa esclusione (sia momentanea, graduale o definitiva) di alcune categorie di alimenti può infatti mettere a dura prova il corpo e la mente e allontanare dalle interazioni sociali che caratterizzano l’umanità.
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