Ci sono scrittori e poeti che sbagliano di proposito e altri che lo fanno invece in maniera inconsapevole. Per tutti l’interrogativo è lo stesso: in che modo si può rendere lo stesso lapsus ma in una lingua diversa? La traduzione non è una sequenza di azioni meccaniche, ma richiede la capacità di mettersi in gioco
- Il lettore non specialista potrà restare perplesso, eppure si tratta di una questione scottante in ambito letterario: come tradurre anagrammi, acrostici, pangrammi, lipogrammi e così via?
- Altrimenti detto, se l’opera di partenza prevede dei particolari procedimenti creativi, come riuscire a trasporli anche nella traduzione?
- Nel suo lavoro precedente, Franco Nasi ha affrontato dei testi che si presentavano a prima vista intraducibili, ma che hanno poi trovato risposte inattese e sorprendenti nelle strategie adottate da vari professionisti. Massimo esempio di tali procedure fu il romanzo pubblicato da Georges Perec nel 1969, La disparition (in italiano La scomparsa).
Esistono due grandi famiglie di errori. Una è quella che ci avvelena la vita quotidiana. Si tratta di errori nostri o altrui. Soltanto con i miei, riempierei questo articolo, ma anche su quelli altrui avrei molto da dire, cominciando dalla burocrazia, per poi passare al medico che dimentica di averti fissato un appuntamento, al meccanico che ti distrugge la macchina lasciatagli in riparazione, o al capitano della nave portacontainer che blocca per giorni e giorni il canale di Suez. Queste, però, sono storie che conosciamo tutti. Assai più interessante è l’altro tipo di errore, che, viceversa, si rivela curioso, diverso, fecondo: sono gli errori che, invece di distruggerci l’esistenza, la arricchiscono miracolosamente.
Se ne è appena occupato per Quodlibet Franco Nasi con Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo. A Nasi si deve il fortunato saggio La malinconia del traduttore (Medusa 2008). Tuttavia, assai più vicino alla sua ultima fatica risulta un altro titolo, sempre di Nasi, ossia Traduzioni estreme (Quodlibet 2015), che esamina una serie di testi “vincolati”, cioè caratterizzati da forti obblighi compositivi, o contraintes. Il lettore non specialista potrà restare perplesso, eppure si tratta di una questione scottante in ambito letterario: come tradurre anagrammi, acrostici, pangrammi, lipogrammi e così via? Altrimenti detto, se l’opera di partenza prevede dei particolari procedimenti creativi, come riuscire a trasporli anche nella traduzione?
Testi intraducibili
Nel suo lavoro precedente, Nasi ha insomma affrontato dei testi che si presentavano a prima vista intraducibili, ma che hanno poi trovato risposte inattese e sorprendenti nelle strategie adottate da vari professionisti. Massimo esempio di tali procedure fu il romanzo pubblicato da Georges Perec nel 1969, La disparition (in italiano La scomparsa), interamente redatto secondo le regole del lipogramma. Il termine designa una composizione in cui viene omessa una lettera dell’alfabeto, scartando o modificando tutte le parole che la contengono.
Ora, nelle 312 pagine del racconto, a scomparire è proprio la vocale più frequentemente impiegata nella lingua francese, ossia la “e” (presente, per inciso, ben quattro volte nel nome dell’autore). Dunque, Perec ha cercato di riempire i suoi varchi, di aggirarla, e non per niente c’è chi ha parlato di una autentica circumnavigazione della “e”. Per farlo, ha dispiegato ogni specie di acrobazia lessicale e sintattica, dando vita a un linguaggio via via arcaico, ridondante o stilizzato. Malgrado ciò, la sua scrittura nasconde l’artificio alla perfezione; basti pensare che alcuni tra i primi recensori non si accorsero di nulla, ignorarono l’esistenza di una regola segreta quale appunto il lipogramma, e credettero di avere a che fare con un semplice poliziesco. A tutto questo ha invece replicato Pietro Falchetta con una esemplare versione, a sua volta lipogrammatica.
Ecco un perfetto campione di traduzioni estreme. Per usare un’immagine tratta dall’alpinismo, potremo parlare di un “sesto grado” della letteratura.
Tradurre l’errore
Ebbene, per alcuni aspetti, questo tipo di testi costituisce la premessa delle nuove ricerche raccolte sotto il titolo Tradurre l’errore. Il perché è presto detto: anche in quest’ultimo libro, Nasi analizza una famiglia di testi speciali, che definisce inquieti, irrequieti, erranti e pieni di energia. Proprio rispetto ad essi, la traduzione perde la sua immagine di pratica automatica, per rivelarsi al contrario un processo critico complesso e consapevole della sua precarietà.
È però necessaria una premessa. Naturalmente, gli errori più o meno ricorrenti nella traduzione interlinguistica sono stati oggetto di numerosi studi settoriali, che indagano le dimensioni semantiche, pragmatiche e culturali di due lingue in modo comparativo/contrastivo. A ciò si aggiungono alcuni repertori relativi agli svarioni in traduzione. Tra questi, si segnala quello di Romolo Giovanni Capuano, intitolato I 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo (Stampa Alternativa, 2013). Si tratta di un volume dal taglio divulgativo, di cui mi occupai a suo tempo e che iniziava dal famoso equivoco sorto sotto l'albero dell'Eden, con il termine “mela” che finisce per sostituirsi alla parola “male”, per via di uno scambio tra accenti brevi e lunghi. Altrettanto sensazionale il passaggio verificatosi, sempre nel corso di una cattiva traduzione, fra i sostantivi kamilos (“gomena”) e kamelos (“cammello”), da cui scaturì l'immagine, inverosimile e presurrealista, del ricco aspirante cristiano che tenterebbe invano di passare, con le sue gobbe, nella cruna di un ago... Un’ulteriore svista modificò poi la definizione della celeberrima piazza di Mosca, che in tal modo passò, dall'iniziale attributo di “bella”, allo scorretto ma ormai immutabile aggettivo “rossa”. Per non dire di quanto accadde nel 1944 durante l'assedio all'abbazia di Montecassino, quando i radiotelegrafisti americani, nell'interpretare un messaggio dei tedeschi, confusero il nome Abt (ossia “abate”) per l'abbreviazione Abteilung (vale a dire “battaglione”), e credendo che un distaccamento di soldati nazisti fosse alloggiato nel monumento religioso, lo bombardarono.
La poetica degli errori
Ciò detto, occorrerà precisare che Nasi non si occupa di questo tipo di errori, preferendo confrontarsi con un altro ordine di casi imprevisti. Verrebbe da pensare a quanto accade con testi classici quali l’Huckelberry Finn di Mark Twain o l’Ulisse di Joyce, in cui la deviazione dalla norma è consapevole e risponde a una precisa intenzione poetica. Non per niente, un personaggio dell’Ulisse ammonisce: «Un uomo di genio non commette sbagli. I suoi errori sono volontari e sono i portali della scoperta». Nasi, però, non si ferma nemmeno a questi modelli, e si spinge ancora più in là, fino a chiedersi: «Ma come deve comportarsi un traduttore rispetto a errori commessi forse involontariamente, quando l’autore sembrerebbe intenzionato ad adeguarsi alle norme linguistiche, ma non lo fa o per mancanza di cultura, o per interferenze con un sostrato dialettale, o per disturbi del neurosviluppo come la dislessia o la disortografia o per un lapsus o per un libero gioco della mente, ma in modi che aprono inaspettatamente e con forza i portali della scoperta?».
Atelier dell’errore
L’avventura prescelta da Nasi riguarda una bizzarra proposta di traduzione legata a un gruppo di adolescenti con problemi cognitivi di diversa gravità, che da anni lavora insieme all’artista visivo Luca Santiago Mora in un laboratorio chiamato Atelier dell’errore. Le ragazze e i ragazzi hanno realizzato moltissimi disegni partendo da immagini enciclopediche di animali e insetti che nella loro interpretazione si sono trasformati in una sorta di angeli/demoni protettori. I membri dell’atelier nominano poi i loro soggetti, e a volte raccontano, scrivendola intorno al disegno, la storia del loro angelo/demone protettore. L’unica restrizione in tutto ciò è il divieto di correggere l’errore. La ricchezza del progetto ha spinto Marco Belpoliti a raccogliere in un catalogo illustrato numerosi interventi di critici, psicologi, filosofi e poeti che si interrogano su questa esperienza, mentre nel 2015, durante l’Expo di Milano, la collezione d’arte Maramotti, che ospita l’atelier, ha organizzato la mostra Uomini come cibo.
Ma eccoci al punto: come tradurre in inglese i titoli dei quadri e le rispettiva didascalie? La più recente traduttologia ha elaborato diverse strategie che possono aiutare il traduttore nel passaggio dalla propria lingua madre alla lingua acquisita. Che cosa succede, però, se le frasi da tradurre sono: “Vendicatore di notte che divorisce dei compagni di classe che io mi avvicino e loro si allontanano e dicono che puzzo”, oppure: “L’attacchista del canile che mangia i mafisti e polizioti e ruerue”, o: “Lo squalatore sessuale che si lecca le ferite”? Evidentemente abbiamo a che fare con una lingua espressiva, altamente creativa, che ci invita a indugiare sullo scarto, mantenendo la tensione fra ciò che è consolidato dalla norma morfologica o sintattica, e ciò che è fluido e imprevedibile come la vita. Ci si deve mettere in gioco, conclude Nasi, e così facendo si comprenderà che il processo traduttivo non equivale a una sequenza di azioni meccaniche, ma consiste piuttosto nel cogliere il problema nella sua interezza, guardare dall’alto la costruzione, e uscire dai limiti che spesso noi stessi ci diamo. La traduzione di testi non standardizzati sollecita quindi il pensiero «a tentare vie laterali, divergenti, a pensare in modo alternativo, outside the box, come si diceva qualche decennio fa, e soprattutto a cogliere la complessità del testo».
Energia dell’errore
Vie laterali, pensiero alternativo. Adesso il panorama si allarga improvvisamente, e la funzione dell’errore acquista una rilevanza inattesa grazie a un’illuminante citazione da Tolstoj.
È nota l’indignazione con cui il romanziere rispondeva a chi gli chiedeva quale fosse il piano dell’opera che stava scrivendo. Il motivo era che non esisteva alcun piano iniziale. Scrive Tolstoj in una sua celebre lettera: «Parrebbe tutto pronto per scrivere, per adempiere al mio dovere terreno, ma manca solo la spinta della fede in sé stessi, nell’importanza della causa. Manca l’energia dell’errore».
Proprio riprendendo questa formula nello studio Energia dell’errore, il critico Viktor Sklovskij individua nell’autore di Guerra e pace una scrittura capace di scaturire dalla stessa sete di ricerca che aveva spinto Colombo a errare in mare aperto, scoprendo “per sbaglio” il Nuovo Mondo.
Tornando in ambito linguistico, viene in mente un brillante saggio di Andrea De Benedetti apparso nel 2015 da Einaudi, La situazione è grammatica. Perché facciamo errori. Perché è normale farli. Sin dalle prime battute, Benedetti spiega infatti che la possibilità di sbagliare non è soltanto la principale garanzia della nostra libertà, ma anche, e soprattutto, il principale indicatore della vitalità di un idioma: «Esiste forse, nella nostra o in qualunque altra lingua, una cosa più intimamente grammaticale dell’errore? No, non esiste. L’errore è la quintessenza della grammatica, perché non è la semplice violazione di una regola, ma è una violazione basata su un’ipotesi alternativa di funzionamento della lingua, un’infrazione della norma che presuppone un’altra idea di norma, cioè un’altra grammatica». Eppure, le suggestioni dischiuse da Sklovskij via Tolstoj vanno ben oltre la sfera strettamente traduttoria e verbale. L’idea di una forza che spinge a superare le rotte sicure del previsto e del programmato senza temere sviste, diventa così il centro di Errore, un libro uscito un anno e mezzo fa per il Mulino a firma di Giulio Giorello e Pino Donghi. Il testo, di orientamento epistemologico ma di estrema leggibilità, si concentra sulla lettura di Charles Darwin, Karl Popper, Konrad Lorenz e soprattutto Ernst Mach (autore di Conoscenza e errore), non prima però di aver consacrato il capitolo iniziale al film Matrix. Per quanto ci riguarda, basti riportare la conclusione del volume: «L’errore ha un grande futuro davanti a sé, sfruttiamolo al meglio». Citazione per citazione, tuttavia, conviene tornare all’indagine di Nasi, soffermandosi sulla pagina in cui viene evocata Pastorale Americana di Philip Roth. Sarebbe difficile riassumere meglio il senso di quanto si è detto finora, svelando la natura profondamente umana, perturbante e al contempo produttiva dell’errore: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando».
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