Angelina Jolie in vestaglia gorgheggia Casta Diva in playback mentre Alba Rohrwacher spignatta ai fornelli, con i due cani di casa come enfants du Paradis, pubblico del loggione. Se usi i nomi veri anziché quelli della finzione (Jolie è Maria Callas, Rohrwacher la sua accudente domestica Bruna) l’effetto comico è garantito. Perché c’è poco da fare, Alba resta una primadonna del cinema anche mortificata da chiome grigiastre e calze ortopediche, e Pierfrancesco Favino resta una primadonna anche con la mestizia da bulldog bastonato che Pablo Larraín ha imposto a Ferruccio, il maggiordomo-badante della divina Callas. Vedi le star e ai personaggi non credi mai.

Hegel scriveva che nessuno è un grande uomo per il proprio cameriere. Arso dal sacro fuoco di ritrattista della vipperia femminile del XX secolo che lo divora da buoni otto anni (Jackie, sulla vedova Kennedy-Onassis, è del 2016, Spencer, canonizzazione di Lady D, è del 2021), l’ex militante regista cileno chiude la trilogia – con Steve Knight di nuovo sceneggiatore – affermando l’esatto contrario. Ci vuole poco a seppellire il ricordo dello sciagurato Callas Forever, l’ultimo lungometraggio di Franco Zeffirelli con una Fanny Ardant a disagio.

Qui il periodo è più breve – non gli ultimi mesi ma l’ultima settimana di vita della Callas sotto farmaci inutilmente vietati dal medico – e l’ambizione smisuratamente più alta: più o meno cucire un melodramma ex novo sulla donna di carne che è stata Tosca, Medea, Norma, Madama Butterfly, la Violetta della Traviata e ha recitato il suo ultimo atto secondo i codici della lirica classica.

La trappola dei flashback

Maria vorrebbe (dovrebbe?) essere un film sull’intimacy di un’icona che da oltre quattro anni è lontana dai palcoscenici mondiali. Ma le esternazioni affibbiate alla povera Jolie sembrano uscite da libretti d’opera: «Mi sono presa libertà tutta la vita e il mondo ha fatto lo stesso con me». Colpo d’ala di sceneggiatura: il Mondrax (il farmaco con effetti ipnotici di cui Callas si intossicava) si materializza in un giornalista che la scorta a passeggio nella Parigi orfana di tanta voce. In sostanza l’inquilina di Avenue Georges Mandel 36 è già un fantasma con un grande avvenire dietro le spalle, come diceva Gassman. E fin qui ci può stare.

Il trappolone sono i flashback in bianco e nero restituiti come allucinazioni dal suo teatro della memoria. L’ombra del fotoromanzo ammanta spietata l’arrogante seduzione di Ari Onassis, mille rose con la targhetta del prezzo. Lei: «Devo tornare da mio marito». Lui: «Da suo marito non tornerà più». È ancora più greve quando sul Christina la porta in visita nella cabina padronale, scrigno di opere d’arte illegali: «Se voglio una cosa la rubo!».

Magari è realismo magico, licenza poetica o chissà che altro, ma la galleria dei Grandi Uomini in fiction rasenta il sordido. Onassis porta la sua diva-trofeo alla festa di compleanno di JFK, quella con Marilyn che canta Happy Birthday. Maria è sorpresa che una vocetta così calamiti il pubblico in sala. E Ari, lapidario: «A nessuno interessa la sua voce come a nessuno interessa il tuo corpo». È un repertorio da manuale, sotto il titolo: partner da evitare a qualsiasi costo. Tant’è che – secondo Larraín e Knight – la stessa notte l’armatore si portava a letto la First Lady. Apoteosi di brutalità, questa storicamente accertata: Callas ebbe notizia delle nozze di Onassis con Jackie dai giornali. Da sceneggiatura, è sublime per grossolanità la sua autodifesa sul letto di morte: «A volte ci si sposa perché si ha un giorno libero».

La sterzata

Produzione di lusso, a misura di icona: stanno a certificarlo le orchestre al completo che fanno cucù senza preavviso, gli ensemble corali, i plotoni di Butterfly in kimono scarlatto coreografate sotto la pioggia francese (ma è Budapest). Lo porterà in sala da noi 01 Distribution, target: melomani e sentimentali attempate. C’era una volta il Pablo Larraín di Tony Manero, Post Mortem, No, El club. È stato uno dei miei eroi. Padre e madre ex ministri, un nonno Presidente del Cile, è un regista eccellente cresciuto nei quartieri alti. Al turning point dei 40 ha sterzato di colpo sulle élite rosa fumetto. Magari è il richiamo della foresta. Comfort zone, la chiama qualcuno.

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