Il 24 gennaio del 1924 Palmiro Togliatti scriveva a Giacomo Matteotti per comunicargli la deliberazione del Comitato centrale comunista, che prevedeva la formazione di un blocco elettorale delle forze operaie. Matteotti rispondeva il giorno seguente, esprimendo a Togliatti il suo dissenso nei confronti dell’«indirizzo tattico comunista che ben sapete antitetico al nostro, come dimostrano le continue polemiche spesso offensive contro di noi».

Non condivideva inoltre, da riformista, l’avversione verso qualsiasi forma di opposizione al fascismo che mirasse a «una restaurazione pura e semplice delle libertà statutarie». La linea scelta da Togliatti non consentiva infatti, secondo Matteotti, di difendere quelle libertà che i comunisti identificavano con l’ordine borghese, contro cui combattevano. A tale intransigenza Matteotti attribuiva la responsabilità «di aver diviso e indebolito il proletariato italiano nel momento più grave di oppressione e pericolo».

Matteotti si era laureato in giurisprudenza presso l’università di Bologna e aveva successivamente coltivato lo studio del diritto penale, recandosi in Germania, Inghilterra, Francia, Olanda, per approfondire la conoscenza dei sistemi giuridici europei. L’elezione a consigliere provinciale di Rovigo nel 1910 e il forte senso di responsabilità verso il Polesine lo condussero poi a scegliere l’impegno politico rispetto alla carriera universitaria.

Della figura di Matteotti Piero Gobetti tracciò un ritratto umano e politico pubblicato il primo luglio del 1924 sul n. 27 de La Rivoluzione liberale. Si trattava di un ampio articolo che alla fine dello stesso mese riapparve in forma di opuscolo. Il testo viene adesso riproposto da Futura Editrice con una prefazione di Giancarlo De Cataldo e una postfazione di Marco Scavino.

Sobria concretezza

Gobetti mette in luce l’individualismo e l’indipendenza di giudizio di Matteotti, qualità che i compagni socialisti non sempre apprezzarono. Nell’ambito della «loquacità provinciale e fiera della vanità e di consolazione del desco piccolo borghese» che caratterizzava spesso gli ambienti del socialismo italiano, scrive Gobetti, Matteotti era infatti isolato. I suoi articoli, del tutto esenti da facili polemiche, si distinguevano per la semplicità del linguaggio e per il costante riferimento a dati precisi.

Matteotti acquisì una grande competenza amministrativa in seguito all’impegno nelle leghe, nelle cooperative e nelle amministrazioni comunali e provinciali. Lo studio dei bilanci degli enti locali gli fu di grande utilità quando, nel corso della sua esperienza parlamentare, si occupò del bilancio statale. Prese le distanze dal protezionismo e si schierò a favore del federalismo, ritenendo che la partecipazione politica avrebbe dovuto procedere dalla periferia al centro, dalla cooperativa al comune, dalla provincia allo stato.

Assolutamente lontano dai toni profetici del velleitarismo massimalista, pensava che la rivoluzione si sarebbe realizzata veramente solo quando i lavoratori avessero imparato a gestire la cosa pubblica. In un clima in cui queste idee facevano fatica ad affermarsi, solo Treves e Turati, sottolinea Gobetti, riuscirono a comprendere pienamente la sua sobria concretezza.

Dopo la scissione di Livorno del 1921 permaneva tra i massimalisti, che non avevano rinunciato al programma rivoluzionario, la tendenza a guardare verso la Terza internazionale. Le divisioni interne condussero nell’ottobre del 1922, poco prima che il fascismo giungesse al potere, ad una ulteriore scissione. I riformisti diedero allora vita al Partito socialista unitario, di cui Matteotti divenne segretario.

Nella sua attività parlamentare, che ebbe inizio nel 1919, fu particolarmente attento ai temi economici e mosse critiche severe al governo Nitti, che a suo avviso non era stato in grado di intervenire con adeguati provvedimenti fiscali nei confronti dei sovraprofitti di guerra. Altrettanto dura fu la sua analisi della politica economica di Giolitti nel 1920. Dopo la presa del potere di Mussolini pubblicò nel 1923 Un anno di dominazione fascista, che in edizione inglese ebbe ampia diffusione tra i laburisti.

Le elezioni del 1924 furono segnate da episodi di violenza, denunciati da Matteotti, che il 30 maggio si oppose in Parlamento alla convalida degli eletti, ricordando che il consenso era stato ottenuto in molti casi con la forza e che egli stesso, pochi anni prima, era stato vittima della prepotenza fascista. Il destino di Matteotti apparve segnato, non solo per la sua opposizione alla ratifica degli eletti, ma per quanto avrebbe potuto rivelare, qualche giorno dopo, in merito alle tangenti versate dalla Sinclair Oil ad Arnaldo Mussolini.

Antifascistieanticomunisti

Ricomporre le fratture

Matteotti comprese bene che, di fronte al fascismo, era necessario ricomporre le fratture fra le varie anime del socialismo italiano. In una lettera a Turati, dell’aprile del 1924, scriveva che era necessario essere uniti contro il fascismo e che bisognava riconsiderare il rapporto con Psi, ormai «purgato dai terzinternazionalismi e nettamente discorde da Mosca». Il nemico era infatti uno solo, il fascismo, ma «complice involontario del fascismo», proseguiva, «è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto della violenza e della dittatura in atto dell’altro».

Matteotti si riconosceva nell’espressione «I comunisti con i comunisti; i socialisti con i socialisti», che Treves, dopo il congresso di Livorno, aveva utilizzato in un articolo su Critica sociale nel 1922. La posizione di Treves trova peraltro riscontro nell’opinione di Togliatti, secondo il quale il nemico era «a tre teste: Mussolini, Sturzo e Turati». Matteotti rientrava dunque, a pieno titolo, nella categoria dei «socialtraditori». Nell’aprile del 1932, su Lo Stato operaio, Togliatti scriveva inoltre che in Turati, morto esule a Parigi il 29 marzo dello stesso anno, si sommarono «tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano». Il «tradimento» e il «fallimento» divenivano, per Togliatti, la cifra dell’intera vita politica di Turati, «spesa per servire i nemici di classe del proletariato, per servirli nel seno stesso del movimento operaio».

L’oppio ideologico

Turati, Treves, Rosselli, Matteotti, che furono considerati socialtraditori per aver preso le distanze dal mito rivoluzionario, hanno guardato più lontano rispetto ai loro inquisitori, anche se le loro idee non sono state adeguatamente comprese.

Umberto Terracini, che nel 1921 si era associato alla condanna dei riformisti, ammise in seguito con grande lucidità, come ha sottolineato Massimo Salvadori, che i riformisti e i socialisti liberali «hanno avuto ragione ma non hanno fatto la storia», mentre i rivoluzionari «non hanno avuto ragione ma hanno fatto la storia». Il riformismo, in Italia, è stato minoritario di fronte al massimalismo e al comunismo, i cui eredi ne hanno rivendicato ambiguamente i valori solo dopo il 1989.

Quando Gobetti scrive che Matteotti appariva a molti militanti «un aristocratico compiaciuto della propria ascetica solitudine», si comprende che la sua azione politica coniugava la libertà individuale con l’equità. Rifiutava infatti l’idea di imporre l’uguaglianza con la forza, come, in forme diverse, teorizzavano massimalisti e comunisti, attirando immediati consensi.

Giorgio Amendola, criticando nel 1932 il programma di Giustizia e Libertà, poneva questa domanda a Carlo Rosselli: «Con il proletariato o contro il proletariato?». Rosselli replicava con fermezza che «il comunismo serve il proletariato riducendolo a gregge (…) Giustizia e Libertà intende servire il proletariato sviluppando in esso il senso della dignità, della autonomia».

Appare evidente come i socialtraditori Turati, Rosselli, Treves e Matteotti, hanno meritato con onore la scomunica togliattiana, ma anche l’ammirazione di quanti hanno scelto, spesso in solitudine, di resistere all’oppio ideologico.

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