Quello che vede come protagonista Chiara Francini, e che ha aperto le Giornate degli autori a Venezia, è un film sorprendente. Perché è fatto della materia di cui sono fatti non i sogni ma la carne, il sangue, la curiosità umana e la simpatia tracimante dell’attrice
Non voglio truccare le carte: una sforbiciata robusta farebbe un bene dell’anima a Coppia aperta quasi spalancata e parimenti agli spettatori che il film porterà in sala – I Wonder Pictures distributrice – subito dopo aver aperto a Venezia il programma delle Giornate degli autori.
Ma è lo stesso rimprovero che si può muovere indistintamente a gran parte dei titoli in circolazione, e questo è un film sorprendente. È sorprendente perché è fatto della materia di cui sono fatti non i sogni ma la carne, il sangue, la curiosità umana e la simpatia tracimante di Chiara Francini. Francini ha delegato la regia a Federica Di Giacomo, che è un nome solido, ma tutto il resto è farina sua: produce, scrive e si moltiplica nei suoi doppi, a cavallo tra palco e realtà, per dirla con Ligabue.
Il titolo arriva dritto dal testo teatrale di Dario Fo e Franca Rame che l’attrice-scrittrice porta in scena dal 2019. È un testo vecchio di quarant’anni: nel 1983, quando Franca Rame interpretava l’Antonia protagonista, Francini andava all’asilo.
Commedia al limite dello psicodramma: sublimava, allora, con sferzante ironia le dinamiche vere della coppia Fo-Rame. C’era un bagaglio di sofferenza e contraddizioni vissute appena sotto la superficie della finzione.
Serviva a far ragionare su una libertà artificiosa che intrappolava le donne. «Prima regola: perché la coppia aperta funzioni, deve essere aperta da una parte sola. Quella del maschio! Perché se la coppia aperta è aperta da tutte e due le parti, ci sono le correnti d’aria!»
L’inizio del viaggio
Chiara fa oggi quello che allora faceva Franca: calato il sipario cerca confronto e verifiche, diventa parte del pubblico, interroga, chiede, ribatte. Non è il rito del dibattito in sala, sono finali di serata conviviali. Alla generazione Z quel testo sembra preistoria, i post-sessantottini sono antenati rimossi.
Questo però è solo l’inizio del viaggio. Che a conti fatti è una mission di esplorazione, senza bussola e senza rete, alla ventura, in quella giungla oscura che è sempre e comunque il rapporto di coppia.
Karl Gustaf Fredrik Lundqvist, compagno di vita di Francini, e Alessandro Federico, il suo partner di teatro, sono chiamati a interpretare sé stessi e a riprodurre, diciamo così, tensioni, dinamiche e battibecchi della vita ordinaria. La parte più originale del film – e la più divertente – sta proprio in queste sit-com del reale, se dobbiamo cercare una formula. Qualcuno lo chiamerebbe meta-teatro, ma a caricare un’opera di paroloni la sciupi.
L’Oscar va ai duetti con la mamma (vera anche lei) e ai tormentoni che la figlia le scarica addosso: «Sei passiva-aggressiva!» È il copione della vita, quel tipo di battute che ci si scambia a un pranzo normale in famiglia. Che sono comiche per natura, senza artificio.
Come l’argomento principe di Francini contro le critiche di mammà al suo disordinato stile di vita: «Io fatturo!» O come quando ironizza sulle sue poliedriche attività: «Mi manca solo il mimo e il porno, poi ho fatto tutto!». Il privato di una mattatrice alle prese con il suo primo self made movie suona curiosamente universale.
La “polecola”
E comunque la vita ha più fantasia del teatro. Il film segue Sara, da vent’anni sposata e con figlia, nel suo trasloco dall’Inghilterra a Ladispoli, costa laziale. Attraverso i social ha conosciuto Efren e si è innamorata di lui. Di comune accordo, andranno tutti a vivere insieme nel sottoscala angusto di Efren, felici di costituire una “polecola”, cioè una molecola poliamorosa in cui Sara si alterna in perfetta armonia tra quattro braccia e due letti. Documentario, campionatura sociologica, i generi si mescolano senza frizioni e al momento giusto fanno incrociare i percorsi.
È sempre il teatro comunque a fornire lo spunto. Durante lo spettacolo una sera Alessandro cambia le battute e pronuncia la parola “poliamore”. Il che gli procura una sfuriata della compagna di scena, ma apre anche una nuova pista di indagine, nell’universo non fittizio, e popolare, di chi nella coppia aperta ha trovato il proprio Vangelo.
I poliamorosi fanno comunità e ostentano una letizia che sembra liturgia, ma chissà. Il poliamoroso più anziano d’Italia racconta a Chiara che ha tre fidanzate, due però a opportuna distanza. I figli ragazzini delle “polecole” deplorano la monogamia, pratica contronatura. Nessun giudizio e nessuna adesione: è bello capire ma è bello anche tenersi le proprie perplessità. Non ci sono strade giuste e sbagliate, solo il fatidico whatever works: purché funzioni.
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