Jonathan Bazzi ha portato in finale il suo romanzo Febbre. Era "l’outsider di quest’anno. Quello che non doveva esserci. Il frocio sieropositivo che scrive come un analfabeta". Ecco come è andata.
- «Che cosa enorme il Premio Strega col primo libro, che cosa enorme, me lo ripeto in testa perché non riesco a sentirlo, non ci credo, non sento niente. Quando viene annunciata la dozzina (marzo), e poi la sestina (giugno), dalla mia famiglia nessuno mi chiama, mi scrive»
- «In finale, cinque uomini e una donna, mentre io scompaio, sempre più piccolo, in mezzo ai discorsi maestosi di Ferrari, Carofiglio, Veronesi e Mencarelli. Simposi, seminari itineranti. Sul pulmino, in mezzo ai templi di Paestum, in riva al mare. Maschi che parlano tra maschi. Storia, letteratura, editoria. I grandi, i più grandi, e io zitto, tutto il tempo zitto»
- «Per la finale a Roma mi gioco tutto. Sul conto mi sono rimasti mille euro, trecento per trucco e nail artist»
Che cosa enorme il Premio Strega col primo libro, che cosa enorme, me lo ripeto in testa perché non riesco a sentirlo, non ci credo, non sento niente. Quando viene annunciata la dozzina (marzo), e poi la sestina (giugno), dalla mia famiglia nessuno mi chiama, mi scrive. Amore, complimenti. Evviva. Qua bisogna festeggiare – niente, nessun messaggio, telefonata, brindisi. È per questo? È per questo che faccio fatica a dare senso al prodigio che vivo? Cosa ne sanno a Rozzano del Premio Strega? Non te la prendere, a Rozzano, tutte case dell’Aler, non c’è mai stata neanche una libreria.
Enorme, una cosa enorme, il senso alle cose lo trovo io, lo decido io, regolazione affettiva in autonomia, dall’inizio dei (miei) tempi. Quando mi chiedono, nelle interviste, se sono felice, io svicolo. Penso al futuro, dico. Io penso già al futuro. Prossimo libro, il film, guardiamo avanti. Distogliamo lo sguardo. Mi concentro sugli abiti: Valentino mi regala o mi presta look che costano come tre anni di affitto della casa popolare in cui sono cresciuto. Non sento niente, farmi vedere. Brillare, accecare. Provatelo voi, almeno voi, quello che non riesco a sentire io.
Jonathan Bazzi, l’outsider di quest’anno. Quello che non doveva esserci. Il frocio sieropositivo che scrive come un analfabeta. Ricattatorio, così son bravi tutti, impietosire, scandalizzare. Entro in dozzina e cominciano i post contro di me, trasformo la cinquina in sestina e prendono a girarmi gli screenshot: hai visto?, hai letto? Jonathan Bazzi in finale: un insulto all’intelligenza. Un diario. Vittimistico, autocommiserativo. Non è Letteratura. Ha rubato il posto a Marta Barone – una donna! –, ma vi va bene perché è di “sorte avversa”. Ha fatto il crowdfunding per il computer e poi veste Valentino? Le lodi sono cento, mille volte di più, ma mi sfiorano solo, gli insulti mi ipnotizzano. Sulla bocca di tutti, li illumino, luce riflessa. Non ci pensare, blocca, blocca tutti. D’altronde – mi ripeto e ripeto agli altri – ho lavorato per anni coi social, ho scritto così tanto per internet. So come funziona: mi pagavano proprio per appiccare polemiche. Sii superiore, mi dicono, vola più in alto. Questi sono sciacalli, vampiri. Oggi contro di te, domani passano ad altro.
Parte il tour, quest’anno ridottissimo, causa covid. Cinque date al posto di quindici. Io in mezzo ai maschi. Valeria Parrella si vede poco, niente cene, niente spostamenti con noi. Perché non viene? Dicono: ha altri impegni. Dicono: tensioni con la casa editrice. Fuori scrivono: in finale, cinque uomini e una donna, mentre io scompaio, sempre più piccolo, in mezzo ai discorsi maestosi di Ferrari, Carofiglio, Veronesi e Mencarelli. Simposi, seminari itineranti. Sul pulmino, in mezzo ai templi di Paestum, in riva al mare. Maschi che parlano tra maschi. Storia, letteratura, editoria. I grandi, i più grandi, e io zitto, tutto il tempo zitto. Sarà scemo, encefalogramma piatto. Cerco riparo sotto l’ala delle donne che lavorano alla Fondazione Bellonci: Patrizia, Serena, lingua materna. Ma il ruolo va sostenuto, sei finalista, e quindi, vai, confrontati coi fantasmi, la radice del trauma. Via dalle donne, annuire, sorridere. Quando prendo la parola: mezze frasi, balbuzie. Più pause che altro.
Maschi contro femmine, io con le femmine. Anche se, col passare dei giorni, le cose si complicano. Mencarelli, maschio dolcissimo. Più accogliente di me, più buono di me. Possiamo stare sempre vicini? – mi dico: non esagerare. Veronesi che al telefono, posto dietro al mio sul van, confessa alla moglie: la bambina ha preso tutti 10 in pagella e un solo 9, ho pensato di scriverle ‘peccato’, ma se poi non capisce che è uno scherzo? E ripenso ai padri che ho incontrato io. Al mio, a quello di mia sorella. E mi asciugo svelto la guancia sinistra, il van è grande, non se ne accorge nessuno.
Jonathan Bazzi da Rozzano, imbevuto di pregiudizi: la verità è che io coi maschi non ci so stare. Neanche quando mi stanno simpatici. Neanche quando mi fanno tenerezza. Come Petrocchi, che viene descritto come un Richelieu, e invece a me emoziona sempre, ragazzo cresciuto, alle prese col potere.
(LaPresse)
Paestum, Benevento, San Benedetto del Tronto, Cervo, Parma: tutto gratis, tutto spesato. Da qui accedo al senso di eccezionalità: mia madre che mi sgridava se consumavo troppo in fretta le cose della dispensa, che al supermercato decideva lei cosa si poteva comprare. Sottomarche, tre euro un pacco di merendine, sei matto?, pensi che io vada a battere?
Al tour dello Strega invece è tutto possibile: puoi prendere quello che vuoi, pensiamo a tutto noi. Antipasto, primo, secondo, contorno, dolce. Alberghi a quattro stelle, quando la mia casa editrice, il mio piccolo editore, poco budget, mi mette nei bed&breakfast cinesi. Essere all’altezza, non deludere le aspettative.
A Benevento, lo scopro due ore prima: bisogna leggere un passo del proprio libro. I nodi vengono al pettine, il caso umano che si rivela per quello che è. Sieropositivo, balbuziente, disabile, perché l’abbiamo ammesso? Invece: mi alzo, vado al leggio, e leggo perfettamente.
Se tamburello con le dita il ritmo mi guida, la voce scorre da sola. Imbroglia, lo vedi che mente? Tramonto, luci, applausi. Gigi Marzullo, Clemente Mastella.
Noi sei finalisti, tutti uguali, di fronte alla famiglia Alberti.
Continua il tour. Tappa in Liguria. Prima della serata, in sottofondo le onde del mare, gli autori preparano le copie autografate. Jonathan, le tue non sono arrivate. Tutti firmano, io dico che non è importante. È già tanto essere qua. Mi dispiace più per la Fondazione, io non sento niente. Non sento mai niente. Mi siedo e li fotografo, i veri finalisti con le loro pile di libri, cinquanta a testa, smaglianti, freschi di stampa. Le fascette come diademi splendenti, sotto la luna che inizia a materializzarsi in cielo. Mi siedo e arriva il libraio: se vuoi mi è rimasta questa. Una copia ammaccata, sporca, da mesi in vetrina. Autografo quella e per uscire dall’imbarazzo, dico: la mettiamo a trecento euro. Sorrisi, risate. Cerco di scrivere tantissimo: data, dedica, firma, di andare il più lentamente possibile.
Vorrei impiegare lo stesso tempo che impiegano gli altri coi loro cinquanta. Sincronizzarmi, non dare nell’occhio.
Inizia il tour, e ho paura. Finisce il tour, e sono triste. Avrei voluto: conoscere meglio gli altri finalisti, riuscire a parlarci. L’unica cosa rilevante a Veronesi l’ho detta sul palco, a San Benedetto. Caos Calmo quando uscì mi rapì il cuore. E ancora: leggo più donne che uomini, ma Veronesi è speciale. Alchimista delle emozioni, non si protegge con lo scudo dei concetti o della verbosità.
Glielo avrei voluto dire dal vivo, ma non so farlo, non sono capace. L’ho fatto sul palco. Protetto dallo sguardo degli altri. Fuori luogo, esibizionista.
Per la finale a Roma mi gioco tutto. Sul conto mi sono rimasti mille euro, trecento per trucco e nail artist. I giornalisti quando mi chiamano pensano che io ora sia ricco: col libro ho guadagnato tremila euro di royalties nel 2019. In arrivo, prossimamente. Facciamo dunque questo piccolo investimento: occhi marchiati alla Jack Sparrow; sulle unghie, caratteri bianchi su fondo nero: Femminuccia, mi faccio scrivere. Il mio ragazzo al mio fianco, in un Ninfeo rarefatto, tutto veloce, velocissimo. Durante l’intervista l’eco perturbante dell’impianto audio mi stordisce, faccio senza pensare, senza sentire. Non mi fermo neanche quando a Zanchini si spegne il microfono, e prende a parlare senza emettere suono, all’improvviso piombato in un acquario.
50 voti, Febbre ultimo, 50 voti.
Veronesi vince e io sono felice. Scende verso il suo tavolo – Dori Ghezzi, Elisabetta Sgarbi – e vorrei andare a salutarlo. Immobile tra la mia agente e il mio ragazzo, sul prato di Villa Giulia, lo dico, dalle mie labbra, quattro parole. Vorrei – andare – a – salutarlo. Vai, mi incitano. Ma vai!
Barcollo sulle zeppe Valentino che domattina devo restituire – ho bevuto troppo senza mangiare – lo sfioro e dico: sono contento. Sorrisi, applausi.
Faccio ritorno al tavolo, raccolgo le mie cose e i piccoli omaggi della serata, mascherina col logo Strega, cartoline, cioccolatini racchiusi in una scatola di latta, illustrazione d’epoca. Mi vengono a comunicare: ti hanno invitato alla festa di Sandro, a casa sua, forse c’è anche Teresa, la più amata, da me.
Che cosa enorme. Tanto non saprei che dire. Meglio scrivere, gli mando un messaggio. Grazie del pensiero. Anche con Teresa, più messaggi che altro. Post, commenti, vocali su Whatsapp. Dal vivo l’ho vista una volta.
Più che dalla periferia, io vengo dal mondo dove non esiste corpo, rapporto diretto. Dove tutto accade senza accadere davvero.
Sul pulmino, tra San Benedetto e Cervo, mentre raccontava del mercato di Prato, la sua città, Sandro Veronesi mi ha detto: se vieni, una volta ti ci porto.
© Riproduzione riservata