Il romanziere Björn Larsson e il filosofo Maurizio Ferraris si cimentano in un problema secolare. Scambiandosi le parti (quello del primo è un trattato, l’altro una divagazione) arrivano a conclusioni simili
Dopo essersi posto tre domande che oggi definiremmo da un milione di dollari, Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è possibile sperare? Immanuel Kant se ne poneva una quarta, Che cos’è l’essere umano? che ai suoi occhi racchiudeva e ricapitolava le tre precedenti.
Sono passati più di 200 anni (le domande si trovano nella Critica della Ragion Pura, la cui prima edizione è del 1781), ma la domanda sull’uomo, inteso come essere umano, continua ad esser posta. Per esempio, fa da filo conduttore di un impegnativo volume di Björn Larsson, Essere o non essere umani, appena tradotto dall’editore Raffaello Cortina.
La destinazione
La cosa potrebbe sembrare curiosa, dato che di mezzo ci sono stati Darwin, la genetica, l’antropologia, le scienze cognitive e una molteplicità di scienze che chiamiamo, appunto, umane in quanto hanno ad oggetto la specie a cui apparteniamo.
Il punto è che la domanda, pur presentandosi come una questione di fatto, e quindi esaudibile, almeno in via di principio, mediante conoscenze ed esperimenti, quasi sempre viene evocata come domanda di senso. Non ci si chiede tanto chi sia quello strano animale che noi siamo, come si sia evoluto dalle scimmie, quanto se questa evoluzione sia diretta verso qualcosa, se sia puramente casuale o abbia in sé una meta, un significato.
Insomma, la domanda sulla natura umana scivola inesorabilmente verso la domanda sulla destinazione o missione dell’uomo, che infatti è il titolo di un’opera del filosofo che nei manuali viene subito dopo Kant, cioè Fichte.
È proprio quello che accade nel libro di Larsson. Che dice di usare il termine “umano” in senso puramente “descrittivo e scientifico”, passa i rassegna coscienziosamente quello che hanno da dire in proposito neuroscienze, psicologia cognitiva e psicologia evoluzionistica, paleoantropologia, etologia e sociobiologia, e perfino la fisica, ma poi anche la linguistica, la scienza della letteratura, l’antropologia, e addirittura la teologia, ma alla fine fa capire chiaramente che quello che gli interessa non è tanto quello che l’essere umano è, quanto quello che potrebbe essere o ancor più quello che dovrebbe essere. Tanto vero che l’ultimo paragrafo del libro si intitola, nientemeno, che Il senso della vita.
Due libri diversissimi
Appunto questo mi ha fatto venire in mente un altro libro uscito in questi giorni, opera di uno dei nostri maggiori filosofi, Imparare a vivere di Maurizio Ferraris (Laterza, 2024), dato che se vivere è qualcosa che si può imparare o, ancor più, se è possibile insegnare a vivere, vuol dire che c’è un senso nel vivere.
Forse cercare il nesso con il libro di un filosofo mi pareva una sorta di risarcimento, perché il libro di Larsson, che trasuda filosofia da tutti i pori non cita praticamente nessun filosofo, tranne un po’ Sartre, che tra l’altro non gli serve a molto dato che per Sartre – è l’ultima parola dell’Essere e il nulla – l’uomo è una passione inutile.
Ma in effetti si tratta di due libri che più diversi non si può immaginarli. Tanto serio, dottorale, ansioso di dire tutto è Larsson, tanto è leggero, brioso, divagante e divertente è Ferraris. La letteratura a cui attinge a piene mani Larsson è serissima e documentatissima, mentre Ferraris ama mescolare con disinvoltura alto e basso, pop ed erudizione, Qui Quo Qua e Bernard Williams, un filosofo che ha scritto un saggio noiosissimo per dimostrare che non avrebbe senso auspicarsi una vita eterna, sprecando così un ottimo argomento sul tema senso della vita.
Di questi cortocircuiti è pieno Imparare a vivere, capace di definire il capolavoro di Heidegger, Essere e tempo, “un libro dell’età del jazz” come Il grande Gatsby, che è letteralmente vero ma rimane straniante.
Una cosa in comune Essere o non essere umani e il libro di Ferraris ce l’hanno, ed è il fatto di essere manifestamente eccentrici nella produzione dei due autori. Larsson di mestiere fa il professore di Letteratura francese a Lund, in Svezia, ma nel mondo è conosciuto soprattutto per i suoi romanzi, e in particolare per La vera storia del pirata Long John Silver, che immagina la vita di uno dei protagonisti de L’isola del tesoro di Stevenson.
Ferraris in vita sua ha scritto ponderosi trattati di Ermeneutica e di Estetica, ma qui mette le mani avanti e dice subito che Imparare a vivere non è uno dei tanti libri che ha scritto e pure che «non si tratta di filosofia».
Sembra insomma che i due si siano scambiati le parti: il romanziere ha scritto un trattato, l’autore di trattati ha scritto, se non un romanzo, almeno una sorta di autobiografia. Come molte autobiografie, comincia con un incidente che fa percepire la caducità (qui letterale: cade e si rompe un osso) della vita, e induce a riflettervi sopra.
Fin qui è la vita propria, che curiosamente è quasi del tutto assenta dal libro di Larsson, che non parla in prima persona (se non per ricordarci di quando, da giovane, si è rifiutato di prestare servizio militare, allora obbligatorio nel suo paese), mentre Ferraris, ad esempio, dedica un capitolo intero a quella fase della vita che precede la vita adulta parlando solo di com’era lui da ragazzo.
Risposte molto simili
Quando si arriva al punto, però, le distanze si assottigliano e le risposte dell’uno e dell’altro diventano perfettamente compatibili, anzi quasi coincidono. E il punto è, innanzi tutto, che cosa sia a renderci umani. Per Larsson è la capacità di svincolarci dagli stimoli presenti, producendo rappresentazioni che non hanno un corrispettivo diretto nella realtà, e al limite possono stare per qualsiasi cosa.
Da questa capacità di produzione di simboli Larsson fa discendere quasi tutte le nostre caratteristiche salienti, l’immaginazione, la coscienza, e ovviamente il linguaggio, ma anche la possibilità di proiettarci nel futuro e addirittura il libero arbitrio (da lui messo in atto per rifiutare il servizio militare).
Per Ferraris, è la capacità di lasciare tracce iterabili anche in nostra assenza, una capacità che è alla base non solo di quella scrittura mentale originaria senza di cui non si darebbero i linguaggi, ma anche della nostra connaturata inclinazione a produrre supplementi tecnici, della quale l’enorme proliferazione di strumenti di registrazione alla quale stiamo assistendo è solo un punto di arrivo provvisorio, non certo qualcosa di inusitato. La sopravvivenza, per Ferraris, ce la assicurano più le macchine che l’anima, più i documenti che i monumenti.
Certo, Larsson è pericolosamente incline a scavare un solco di eccezionalità tra l’animale non umano e quello non umano, mentre Ferraris pensa che guardare al primo attraverso gli occhi del secondo aiuti a capire molte cose. Del libero arbitrio, poi, a Ferraris non sembra importare gran che, anzi pare flirtare con un determinismo un po’ alla Houellebecq, riducendo molto, se non tutto, dei nostri stati d’animo alla chimica del cervello, alla serotonina e alle triptammine.
Ma di nuovo, quando la posta si fa decisiva, le soluzioni di Larsson e di Ferraris si allineano. Per l’uno e per l’altro il senso si può dare solo nella vita in comune, nel condividere il cammino con gli altri. L’intersoggettività è l’aspetto imprescindibile della nostra esperienza. Nel libro di Ferraris l’ultimo capitolo si intitola “convivere”, a riprova del fatto che «se c’è un senso nel vivere, sta proprio nel convivere, nel passare il tempo con i propri simili».
Non si tratta solo di ribadire quello che sappiamo almeno da Aristotele in poi, cioè che siamo animali sociali, ma anche di comprendere quanto delle nostre esperienze è fatto imitando e imparando dalle esperienze altrui, anche da quelle sedimentate nella fiction, non importa se le apprendiamo da un grande romanzo o da una serie televisiva.
La risposta alla domanda sul senso, che Larsson insegue con tanta fatica, forse allora è quella che troviamo citata con un po’ di sufficienza proprio all’inizio del suo libro. È la risposta del filosofo Ludwig Wittgenstein, che a chi gli chiedeva quale fosse il senso della vita disse che era vivere in maniera tale da non doversi mai porre il problema.
Diversamente da quello che sembra, non è un invito a vivere spensieratamente, ma al contrario ad avere sempre uno scopo determinato, un impegno che ci motivi e che ci dia stimolo ad andare avanti. Insomma, qualcosa che ci faccia dimenticare di arrovellarci sulla meta ultima, che probabilmente non esiste. E se poi non è solo qualcosa, ma anche qualcuno o qualcuna, ancora meglio.
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