Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter, in arrivo ogni mercoledì pomeriggio, clicca qui
Prima di leggere l’articolo che ho scritto questa settimana per Cose da maschi vi inviterei ad ascoltare i seguenti rimarchevoli brani della canzone italiana: Pierre dei Pooh (1976); Supergay di Sonia Argento (1980); e Il mio amico di Anna Tatangelo (2008).
Gli altri brani su cui mi soffermo (Un anno d’amore e Anche un uomo di Mina, Almeno tu nell’universo e Minuetto di Mia Martini, L’appuntamento di Ornella Vanoni, Ho fatto l’amore con me di Amanda Lear etc.) faccio conto li conosciate a menadito – pur magari non sapendo, come non lo sapevo io, chi li ha scritti. Si tratta delle canzoni che, ispirato dai generi musicali astrusi che ho scoperto sugli Spotify Wrapped dei miei contatti, ho deciso di raggruppare in un genere italofono di mia invenzione: il “classicone da lip sync”.
Il classicone da lip sync sarebbe quel tipo di canzone che generalmente una drag queen di talento, se italofona appunto, sceglierebbe per cimentarsi nell’ultima prova di un episodio di RuPaul’s Drag Race, l’intelligente battle royale del drag di cui ho scritto qualche mese fa su Domani – e su cui si tornerà in questa rubrica, essendo in preparazione un pezzone a otto mani provvisoriamente intitolato “Per una galleria nazionale del drag”.
In quello show, RuPaul invita lə sfidanti a competere in playback all’ultimo sangue (lip sync for your life) sulle note di una canzone spesso struggente, da diva (o anti-diva), facendosi prestare la voce (ma nient’altro) da una grande interprete donna per performare il massimo grado della femminilità.
Tali classiconi da lip sync, in Italia, sono dunque canzoni sulla femminilità interpretate da donne. Ma scritte quasi sempre (ecco il punto) da uomini.
Si sa che parolieri pur celebratissimi, come Mogol, scrivono testi assai maschili anche quando destinati a interpreti femminili – tipo Essere una donna, cantata da Tatangelo: un coacervo di stereotipi e robe vaghe. Lo stesso si dica di Enrico Ruggieri, la cui Quello che le donne non dicono si rivela una fantasia imbarazzante – non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro sì? – non appena si estingue l’incantesimo lanciato su di essa dall’incomparabile Fiorella Mannoia (per esempio quando la canta, grottescamente, lui stesso).
Ci sono però numerosi casi d’impressionante acume di genere e di gender: Non sono una signora di Ivano Fossati ad esempio, così perfettamente incastrata nella mitologia di Loredana Bertè, o La bambola di Franco Migliacci, primo vero cavallo di battaglia italiano di Patty Pravo.
Quello però che mi colpisce di più è Anche un uomo, scritta per Mina da Alberto Testa sotto lo pseudonimo Dina Tosi, preso in prestito dalla moglie. Roba ai livelli di I Will Survive di Gloria Gaynor, inno dell’empowerment firmato da Freddie Perren.
L’articolo, che trovate qui, si interroga sulla possibilità che scrivere brani per interpreti donne abbia offerto un’avventura epistemologica a certi autori maschi, se non addirittura un’occasione per esprimere desideri e sentimenti (la dipendenza, l’attesa febbrile, la fragilità emotiva, il bisogno di sensibilità) altrimenti inammissibili.
Una specie di lip sync inverso, o di drag testuale: un gioco di ruolo androgino che mette in pausa le convenzioni, o organizza una triangolare formazione di compromesso. Talvolta, forse, un ventriloquio.
Mi domando cosa pensiate in particolare dei tre brani di cui dicevo all’inizio, scritti da Roby Facchinetti, un certo Giuseppe Abba (ma chi è?) e Gigi D’Alessio.
Nota importante: se qualcuno che riceve questa newsletter ha qualsiasi informazione sulla misteriosa Sonia Argento, l’interprete di Supergay, lə prego di scrivermi: ho bisogno di sapere. Supergay mi è partita una sera in palestra su youtube music dopo che avevo ascoltato alcuni grandi successi di Lorella Cuccarini e Raffaella Carrà per rallegrare virilmente la noiosissima mezz’ora sull’ellittica.
Quella sera stessa lo condivisi estasiato con Michela Murgia (che ribatté appunto con la formidabile Pierre dei Pooh, ridipingendomi d’un lampo gli anni Settanta italiani) e con la francesista italofona Christy Wampole, patita di glam e regina di karaoke.
Fu Christy a scoprire che si trattava del lato b (prevedibilmente) dell’unico singolo rintracciabile di Sonia Argento, intitolato Fallo con me (!). Mi aspettavo un’ironica femme fatale in copertina, ma il vinile che emerge dalle ricerche Google ha un’iconografia su cui ci sarebbe da scrivere un numero intero di questa rubrica.
Scocciata e riccia, con gli stivali da cowboy e i jeans col risvolto, Sonia (ma sarà lei?) fuma quella che sembra una sigaretta postcoito su un cuscinone per terra. Ogni aspetto della sua postura, del suo sguardo, del suo abbigliamento, è una cosa da maschi.
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