Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter, in arrivo ogni due mercoledì alle 18.00, clicca qui
Ho cominciato questa rubrica, prima che si associasse a questa newsletter, scrivendo di armature. Scrivevo in realtà, come si capiva subito dal pezzo, di divise, di uniformi. Ragionavo, ispirato da una dichiarazione sacrosanta di Michela Murgia che ha scatenato un putiferio, su come certi abiti che corrispondono a una funzione abbiano un’agentività tutta loro, una loro volontà, da Omero in giù.
Ho appena proposto un nuovo corso per il prossimo autunno, aperto solo alle matricole della mia università, che gira in torno a questo ragionamento – si intitola 6 Pretty Good Knights, e leggeremo diverse cose interessanti sulle armature e le divise, da Calvino alla Chanson de Roland, dal Batman di Frank Miller alla Clorinda di Torquato Tasso. E naturalmente ho incluso e ampliato l’originaria riflessione nel libro Cose da maschi, che la settimana scorsa a New York è entrato nella cinquina finalista del Premio The Bridge, con mia somma felicità di migrante translingue.
Torno oggi con voi sull’uniforme perché in questi giorni si parla molto del fatto che Elly Schlein si affida, come ha raccontato a Vogue, a una consulente per curare il proprio guardaroba. Mi pare scontato che a destra i detrattori si giochino la carta ormai parodistica della radical chic – come se fosse imbarazzante essere radicale, come se non fosse possibile esserlo essendo anche chic, come se non esistessero Fela Kuti, AOC, Ella Baker o, che so, Bertinotti.
Più perversa è l’amarezza da sinistra, di quelli che invocano un’autenticità ed estraneità alle logiche di mercato della politica odierna che in realtà Schlein, proprio ammettendo di demandare certi impacci a una più esperta mediatrice capace di renderla ecumenicamente leggibile a chi vota, mostra di incarnare.
Questa storia un po’ cretina, da leggere senz’altro attraverso il filtro del genere, mi ha suggerito di ragionare ancora sull’uniformità: sul vestirsi allo stesso modo. Stavolta però, dato che dalle cose sono ormai passato alle relazioni, agli affetti, ho divagato su come “vestirsi tutti uguali” sia diverso dal “vestirsi sempre uguale” – un tratto, quest’ultimo, cui mi sono reso conto di corrispondere grazie alla dottoranda che mi assiste nell’insegnamento di un corso proprio sul genere e sullo sperimentalismo.
Spero che abbiate un momento, in quest’inizio rapinoso di maggio, per leggere il pezzo, che trovate qui su Domani online e che sabato uscirà sul giornale di carta con l’estiva, trasognata illustrazione di Didier Falzone, ispirata agli enigmatici carabinieri pittorici di Pippo Rizzo – sempre imbambolati, in uniforme, a contemplare quadri-nei-quadri in cui giostrano cavalieri e paladini in armatura.
Voglio credere che questi due gendarmi vestiti uguali di Didier siano quelli che avrebbero dovuto arrestare Pinocchio, ma che invece all’ultimo abbiano deciso di bigiare per andare in spiaggia. Mi domando di quale sostanza siano composti i loro pennacchi, che rifulgono sulla carta ruvida delle altre campiture del collage. Buon primo maggio, sebbene in ritardo!
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