- Quando lavoravo in cartolibreria per pagarmi gli studi osai proporre a una mamma un quaderno viola e lei si congelò: «Ma è per mio figlio maschio!».
- La cultura popolare che assegna un genere ai colori è legata a logiche del capitalismo recente. A cristallizzare il binario rosa-blu per l’abbigliamento infantile fu l’avvento dell’ecografia, che spianò la strada al marketing di genere. L’estetica delle principesse Disney risponde alla stessa storia cromatica.
- Al Politecnico di Milano facemmo l’esperimento di ricolorare di malva, glicine, pervinca le impugnatore di strumenti da bricolage. Il risultato fu straniante.
Fra i molti discutibili “lavoretti” che ho svolto per pagarmi gli studi c’è stato il commesso di una cartolibreria: una volta osai proporre a una mamma un quaderno con la copertina viola e lei, congelandosi, mi disse: «Ma è per mio figlio maschio!, se glielo compro me lo lancia addosso».
A raccontarlo adesso, mi torna alla mente l’introduzione alla serie fotografica di JeongMee Yoon, The pink & blu project: «Questo progetto esplora le differenze culturali nei gusti dei bambini e dei loro genitori»; se certi bambini non hanno quaderni viola, infatti, è perché certə adultə non glieli comprano.
JeongMee Yoon, invece, dal 2006 ha cavalcato l’ossessione della figlia che «a cinque anni voleva vestirsi solo di rosa e giocare solo con oggetti rosa», ritraendo lei e altre ragazzine in camerette tappezzate di abiti e bambole talmente simili che a fatica si distinguono. Non si tratta certo di preferenze innate delle femmine, come non lo è per i maschi verso il blu, anzi: «Volevo mostrare fino a che punto le bambine e i bambini subiscono l’influenza della cultura popolare».
Rosa vs. Blu
Sembra impossibile, ma questa cultura è estremamente recente – e nel 1918 risultava peraltro ribaltata: la rivista Earnshaw’s infants’ department, specializzata in abiti per fanciullə, a giugno di quell’anno destinava il rosa ai maschi e il blu alle femmine «perché il rosa è un colore più forte e deciso», derivato dal rosso, «mentre il blu è più adatto alle femmine, perché è più delicato e grazioso», ed è il colore con cui notoriamente si rappresenta la Vergine.
Il manto mariano, però, non è celeste per questi motivi: l’azzurro – il blu in generale – per tutta la storia dell’arte è stato raro e costoso, poiché ottenuto dalla macinazione del lapislazzulo, una pietra semipreziosa che arrivava in Italia attraverso la Via della Seta. Nel Rinascimento, il colore non indicava il genere di chi era raffiguratə ma la classe di chi aveva commissionato l’opera: come scrive Riccardo Falcinelli in Cromorama, «tra nerofumo e oltremare» c’era «la differenza che passa tra una patata e un tartufo bianco». E il colore continua a indicare la classe anche all’inizio degli anni Venti, quando Jay Gatsby, non a caso, indossa un «meraviglioso» e «luminoso» completo rosa al chiaro di luna.
Furono gli anni Cinquanta – e soprattutto poi i (favolosi?) anni Ottanta a stigmatizzare il rosa e il blu per l’abbigliamento infantile, quando l’avvento dell’ecografia spianò la strada al marketing di genere. Le prime due cosiddette Principesse Disney, Biancaneve e Cenerentola, sono allora scampate dallo stereotipo perché rispettivamente del 1937 e del 1950: hanno un’immagine-da-merchandising tendente al cobalto.
La Walt Disney Company, comunque, non può essere presa a modello per parità di genere: da un’analisi del 2016 delle linguiste Carmen Fought e Karen Eisenhauer emerge come, nei dodici lungometraggi con le principesse – e col loro nome spesso nel titolo – i personaggi maschili finiscano col parlare più spesso e più a lungo delle donne: in Mulan del 1998 Mushu supera la protagonista eponima e l’unica figura femminile in Aladdin, Jasmine, occupa il 10 per cento della sceneggiatura: ecco perché il film del 2019 sentì il bisogno di aggiungerle una dama di compagnia – in cerca di marito.
La prima Disney Princess a vestire di rosa Barbapapà sarà Aurora ne La bella addormentata nel bosco del 1959, dopo una disputa fra Flora e Serenella che le cambiano il colore dell’abito fino all’ultimo secondo disponibile del breve film, al grido di «che sia rosa!», «che sia blu!». Se però la pellicola può lasciarci e ci lascia col dubbio, il marketing non lo consente: Aurora deve essere vestita di rosa, anche perché Cenerentola è azzurra, Belle gialla, Tiana verde; un trucco ricorrente nell’immaginario infantile che va dai policromi Power Rangers ai personaggi di Peppa Pig.
Giocattoli reali e vezzeggiativi
In quel momento, con quella genitrice e il quaderno davanti, non me la sentii di fare pedagogia: eppure erano anni in cui facevo cultura della materia al Politecnico di Milano, nei corsi sull’editoria per bambinə e gli stereotipi di genere. Sfruttai l’accaduto per un esercizio: prendemmo le campagne pubblicitarie di alcuni utensili da bricolage – martelli, trapani, seghe – e ricolorammo le impugnature di malva, glicine, pervinca, per proporli a una serie di negozi e di acquirenti. Il risultato fu straniante per loro ma, ammetto, anche per me: siamo infatti abituatə a vedere i giochi da maschi sempre aderenti alla realtà – camionette dei pompieri, razzi spaziali e dinosauri mantengono i loro colori effettivi, sono solo in scala; i giochi da femmine invece, se escludiamo quelli che non hanno riscontro nel mondo (contemporaneo) – ali, unicorni e coroncine – sono puntualmente ricolorati di lilla, verde acqua, pesca: colori tenui che rendono le pentole pentoline ma mantengono un terribile significato.
C’è cascato pure un marchio come Lego che, col suo logo giallo e rosso, si era ripromesso di non farne una questione di genere: è durata fino all’avvento di Lego City, linea indirizzata ai ragazzi che ha scatole blu e istruzioni che sviluppano l’intelligenza spaziale: camper, sottomarini, montagne russe – sono, insomma, giochi di costruzione. I prodotti Lego Friends invece, destinati alle ragazze e quindi viola, più che sulla costruzione si basano sulla simulazione: gli edifici sono meno complessi, contengono meno mattoncini e più personaggi, i personaggi hanno nomi e animali domestici e appuntamenti dal parrucchiere.
Quando la linea fu lanciata, nel 2012, decine di migliaia di firme ne chiesero la soppressione: «Considerati gli sforzi che vengono fatti per coinvolgere le bambine in campi come la Scienza e la Tecnologia, questa è una clamorosa occasione sprecata» commentò la professoressa Becky Francis, direttrice del Dipartimento Istruzione alla Royal Society of Arts di Londra.
La giornalista Costanza Miriano, invece, difese il gioco nel suo blog: «Le parti da montare, è vero, non sono molte, ma comunque di quelle si è incaricato il fratello maschio che si diverte ad assemblare, mentre noi tre femmine, pur non essendo disabili all’impresa, preferiamo dedicarci alla vita sociale».
Faceva bene Miriano a domandarsi, qualche riga più avanti: «Io e mio marito abbiamo diabolicamente plagiato la mia prole, cercando silenziosamente di coltivare in loro discriminazioni di genere, oppure semplicemente ai maschi piacciono giochi da maschi, alle femmine giochi da femmine?».
Se la domanda è posta alla società, la soluzione è riposta nei genitori.
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