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Ha ragione Franzen, la nave da crociera incarna lo spirito dei nostri tempi, anzi, è ancora di più allegoria del capitalismo stesso: va accettato con tutte le sue storture e le possibilità di fallimento perché non sembra esserci alternativa. È il profitto, bellezza.
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Eppure, se è stato “Il dito di Dio” a evitare l’affondamento totale della nave, come qualcuno dice nel bel podcast di Pablo Trincia, è stata sicuramente “la mano umana” a salvare la mia isola dal disastro ecologico.
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Sarebbe bello che almeno per il decennale del salvataggio, nell’estate del 2024 qualcuno parlasse anche di questo. Di questa storia qua in Usa non parla più nessuno. Il decennale di un incidente non avvenuto sul loro territorio per loro è privo di senso.
Come capita spesso dopo uno degli ultimi aggiornamenti del sistema operativo, il mio smartphone mi ripropone delle foto dal passato secondo una sua calcolata cadenza, roba di algoritmi, ma preoccupantemente precisi nel mirare dritti al cuore.
Oggi è stato il giorno di un’immagine dell’inverno 2012, scattata dalla finestra della camera che condividevo con mia sorella quando eravamo bambine e vivevamo all’isola del Giglio. La persiana di legno verde con un pomello di ottone, ancora lo stesso dagli anni Settanta, è aperta sul primo panorama che occupa la mia memoria: i tetti arancioni delle case sottostanti, il terrapieno della ex scuola media, l’insegna dell’Hotel Demos e poi gli scogli, il mare, l’orizzonte con tantissimo cielo.
È una foto d’inverno scattata appena dopo la pioggia, e quella che di solito era una vista rasserenante di azzurri marini è una distesa angosciante di bianco che vira al grigio. Ma l’elemento che turba, guardando quella fotografia, non è certo legato ai colori del cattivo tempo.
Nel punto che dalla vista della mia finestra è da sempre stato occupato dallo scoglio della Gabbianara – quello a cui ho sempre pensato quando volevo visualizzare un’immagine rassicurante, per rilassarmi o meditare – c’è l’enorme, incongruo relitto della Concordia, che tutti abbiamo visto da quella prospettiva innaturale e spaventosa.
Dentro quella nave, al tempo della foto, ci avevano appena perso la vita trentadue persone. Non è difficile figurarsi l’impatto che possa aver avuto per me aver visto il panorama dell’infanzia, il più amato e richiamato a mente, trasformarsi in un’immagine entrata nell’immaginario collettivo come simbolo di disastro e morte.
Condanne senza appello
Quando successe l’incidente, il 13 gennaio del 2012 ero da pochi giorni andata via dal Giglio, dove avevo trascorso il Capodanno. Per più di un mese non ho avuto il coraggio di tornarci. Di guardare dalla mia finestra. Spinta proprio dal desiderio di allontanarmi da lì e dai media che non parlavano d’altro, accettai in quei giorni un invito a New York.
Non trovai pace neanche da questa parte dell’oceano, dove mi trovo anche adesso che di quell’incidente si commemora il decennale. Anche sui giornali americani c’erano le foto dello scoglio, della nave. David Letterman dedicò cinque minuti buoni del suo popolare show il 22 gennaio 2012, per prendere in giro Francesco Schettino, le cui imbarazzanti scuse per aver abbandonato la nave prima che fossero in salvo tutti i passeggeri («sono scivolato e caduto, ci siamo cappottati» disse al telefono al comandante De Falco che gli chiedeva spiegazioni) avevano fatto il giro del mondo.
Letterman aveva iniziato il suo show dicendo alla platea «immagino che la maggior parte di voi sia qui stasera perché è scivolata e caduta in teatro, del resto è così che vanno le cose», continuando lo sfottò di tutte le risposte ridicole che l’ultimo capitano della Concordia aveva dato alla capitaneria che da terra gli intimava di tornare a bordo, cazzo.
Del resto di quell’incidente, di come è veramente avvenuto, di come funzionino queste pericolose città galleggianti, degli errori commessi prima e dopo l’impatto e lo squarcio, del fortunato intervento del grecale che ha spinto la nave sugli scogli anziché in mare aperto, dell’eroico e tempestivo intervento dei pochi gigliesi che si sono visti arrivare in una notte d’inverno 4mila viaggiatori naufragati ne abbiamo parlato molto noi italiani, ma è importato ben poco al mondo.
Quello su cui ci si è soffermati di più è stato appunto il comportamento del capitano, come fosse esemplare dello spirito dei tempi, della tipica codardia contemporanea (se non italiana).
Del resto l’etica americana ha una lunga tradizione di condanne senza appello contro potenti dalla morale non specchiata. E Schettino era l’esempio perfetto del vanitoso cialtrone che se n’è infischiato del codice marinaresco, dell’onore e della legge, e invece di essere l’ultimo a lasciare la nave è sceso quando se l’è vista brutta.
Ne ha parlato anche la scrittrice Rachel Kushner, autrice di romanzi di successo come Mars Room e I lanciafiamme, in un pezzo del 2015 molto interessante dal titolo Bad Captains, leggibile on line sulla London review of books.
Scrive Kushner: «È destino della mia generazione non aver mai conosciuto la nobile legge del mare, e vivere, invece, in un’epoca in cui il capitano lascia la sua nave non per ultimo, ma per primo. Chiamalo il nuovo spirito del capitalismo, inaugurato con tutte le altre forme di spietatezza che segnano la contemporaneità e dipinto nella nostra storia navale in modo più vivido, e di recente, dalla tragedia della Costa Concordia e del suo famigerato capitano, Francesco Schettino».
Allegoria dei nostri tempi
Gli scrittori americani della generazione di Kushner non sono nuovi alla narrazione della crociera turistica come grande allegoria dei nostri tempi malati.
Oltre al citatissimo reportage narrativo Una cosa divertente che non farò mai più, capolavoro di umorismo postmoderno in cui David Foster Wallace racconta una ormai famigerata crociera extralusso ai Caraibi, anche Jonathan Franzen ambienta alcuni dei più significativi momenti del romanzo Le Correzioni proprio su una nave da crociera e dichiara in un’intervista del 2010 alla Paris Review: «La nave da crociera è l’emblema dei nostri tempi».
Eppure. I tempi splendenti in cui la crociera era il sogno spensierato e allegro alla portata dei più, messo in scena dalla serie televisiva Love Boat sono passati da quarant’anni. Ne sono passati venticinque dal feroce racconto di Wallace sull’assurdo e opulento sistema del divertimento di massa progettato dalle crociere, una ventina dalle Correzioni di Franzen, dieci dall’incidente della Concordia, altrettanti di lotte dei veneziani per proteggere la loro città deturpata e messa in pericolo dalle grandi navi, due anni dal grave focolaio di Covid (uno dei primi) scoppiato a bordo della Diamond Princess restata in quarantena nel porto di Yokoama per più di un mese con settecento persone infettate di cui ne sono morte dodici, e solo pochi giorni dalla notizia di altre cinque navi da crociera che in Usa e in Sudamerica sono dovute rientrare in porto prima del previsto perché piene di positivi a bordo, eppure, dopo tutto questo, nessuno che abbia ancora decretato definitivamente che il sistema delle crociere è assurdo, antiecologico, insostenibile, iniquo nei confronti della maggior parte dei lavoratori (le crew hanno contratti da sfruttamento) e pericoloso per l’ambiente e per chi ci viaggia.
In questo senso ha ancora ragione Franzen, la nave da crociera incarna lo spirito dei nostri tempi, anzi, è ancora di più allegoria del capitalismo stesso: nessuno mette più in dubbio la sua necessità, va accettato con tutte le sue storture e le possibilità di fallimento perché non sembra esserci alternativa. È il profitto, bellezza.
Il profetico Film socialisme
Dal saggio di Rachel Kushner ho appreso un’altra cosa che ignoravo: nel 2010, due anni prima dell’incidente, Jean-Luc Godard ha girato gran parte del suo Film socialisme proprio a bordo della Costa Concordia.
Seppure il film sia sconnesso e poco riuscito è inquietante il quasi profetico destino che riserva alla nave, simbolo dello sciatto lusso messo in piedi dal turismo di massa, in cui si mangia, si gioca e si è intrattenuti a ciclo continuo in una sorta di movimento accecante e insensato: emblematiche le scene in cui Patty Smith esce da un ascensore cantando ignorata da tutti, la messa celebrata sulla discoteca della nave in mezzo a mille lucine, e soprattutto l’inquadratura del mare dal parapetto mentre una voce fuori campo grida in italiano «Abbandonare la nave! Abbandonare la nave!», il famigerato ordine che esattamente due anni dopo non era più una riga su una sceneggiatura, ma un ordine necessario arrivato con troppo ritardo.
Questo film profetico, insieme ad altri segnali “sfortunati” come la bottiglia di champagne che non si è rotta al varo della nave, l’incidente “premonitore” avvenuto nel porto di Palermo nel 2008 in cui la Concordia ha sbattuto contro la banchina, il fatto che il naufragio sia avvenuto nella notte di venerdì 13 e che, una volta perso il comando dei motori in tanti abbiano parlato di miracolo, quando la nave si è girata e adagiata sullo scoglio della Gabbianara, hanno ammantato la storia della Concordia di tanta superstizione, irrazionalità, segni del destino.
La mano umana
Eppure, se è stato “Il dito di Dio” a evitare l’affondamento totale della nave, come qualcuno dice nel bel podcast di Pablo Trincia, che da questa espressione prende il titolo, è stata sicuramente “la mano umana” a salvare la mia isola dal disastro ecologico, con operazioni di ingegneria navale che hanno permesso non solo di evitare lo sversamento in mare del carburante prima, ma anche l’affondamento del relitto poi, con tecnologie mai usate in precedenza per navi di quella stazza.
Sarebbe bello che almeno per il decennale del salvataggio, nell’estate del 2024 qualcuno parlasse anche di questo, non solo di quanto è successo nella notte dell’incidente, ma di tutti i progetti e del lavoro senza sosta di centinaia di sommozzatori, operai, tecnici, ingegneri e isolani che nei due anni e mezzo dopo l’incidente hanno permesso la rimozione del gigantesco relitto e hanno restituito al Giglio la liberazione da quell’orrore (e alla mia finestra il suo panorama originario, per il quale non smetterò mai di essere grata).
Di questa storia qua in Usa non parla più nessuno. Il decennale di un incidente non avvenuto sul loro territorio per loro è privo di senso, qua i media sono totalmente americanocentrici ed esistono le notizie interne, e poi qualche generico cenno al “resto del mondo”.
È chiaro quindi che per me, per la quale l’incidente della Concordia è stato come per un newyorchese l’11 settembre, il senso di isolamento emotivo in questi giorni è pesante. Mi sto vivendo questa ricorrenza da sola, principalmente ascoltando i numerosi podcast che sono usciti, oltre a quello già citato di Pablo Trincia c’è quello notevole di Matteo Caccia, Il mondo addosso tutto realizzato con le voci dei gigliesi che erano lì quella notte e hanno assistito, aiutato e salvato i superstiti del naufragio.
Sono tutte voci di amici e di persone che conosco, voci familiari tra cui anche quella di mia madre che racconta com’era il Giglio negli anni Settanta. Inutile dire la commozione costante che ho provato ascoltandolo, e il nodo alla gola che mi ha preso quando ho sentito Gigi l’ex farista che dice: «Non abbiamo fatto niente di eccezionale quella notte. In fondo qui al mare ci chiamiamo tutti Aiuto di secondo nome. Se qualcuno grida Aiuto, ci giriamo». Dovrebbe essere così sempre e per tutti quelli che chiedono aiuto in mare, non valere solo per quelli in cui ci riconosciamo.
Lorenza Pieri è nata a Lugo di Romagna ma ha trascorso l’infanzia tra l’isola del Giglio e la Maremma. Naturalizzata americana, vive a Washington DC, dove si dedica alla scrittura narrativa, giornalistica e alla traduzione letteraria. È autrice del memoir Molto grossa, incredibilmente vicina (doppiozero, 2013) sul caso del naufragio della Concordia all’isola del Giglio. Il suo primo romanzo, Isole minori (Edizioni e/o, 2016), è stato vincitore di quattro premi ed è tradotto in cinque lingue.
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