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Nel suo ultimo lavoro il filosofo Roberto Esposito inserisce l’attuale bisogno di immunizzazione collettiva nella tendenza di ogni comunità politica, rendendolo così tanto comune quanto insignificante. Il paradigma immunitario è questo: il proteggersi dal male col male stesso.
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A livello politico, secondo Esposito, questo si manifesta nei paradossi della democrazia che si definisce come tale solo escludendo qualcuno (ad esempio i migranti), cioè negando il principio inclusivo su cui si basa.
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Il ping pong esegetico gli permette di essere spietatamente critico con le pretese di giustizia alla luce di ciò che non va, e allo stesso tempo di essere molto scettico nei confronti degli ideali. È però un gioco troppo facile.
Nel suo ultimo lavoro Roberto Esposito inserisce l’attuale bisogno di immunizzazione collettiva nella tendenza di ogni comunità politica, rendendolo così tanto comune quanto insignificante.
La pandemia Covid-19 ha reso l’immunizzazione una questione politica. Per mesi si è discusso sul green pass e sull’obbligo vaccinale. Si è litigato sull’esigenza di tutela del bene comune e sulle pretese legittime o mal poste di libertà individuale.
Tutto questo è sembrato tanto cruciale quanto sconvolgente per la nostra coscienza collettiva. Ma se questo bisogno impellente di immunizzazione non fosse così nuovo? Se fosse la riedizione in salsa emergenziale e tecnologica di una vecchia tendenza?
L’immunizzazione come biopolitica
Roberto Esposito nel suo ultimo libro (Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia) sostiene qualcosa di simile. L’immunizzazione da vaccino sarebbe la versione biopolitica del bisogno di proteggersi che ha ogni comunità politica.
Secondo le teorie biopolitiche nel mondo moderno e contemporaneo il potere biopolitico non consiste nella mera coercizione, bensì è un potere di disciplina della popolazione attraverso pratiche e procedure di natura scientifica (medicina sociale, psichiatria, economia, etc.).
Esposito aggiunge, a questa ricostruzione ormai consolidata, la chiave interpretativa dell’immunizzazione, che sarebbe onnipresente in diversi gangli delle nostre società. In maniera più accorta e argomentata rispetto alle sparate paranoiche di Giorgio Agamben, di cui per altro ha condiviso diversi temi e riferimenti, Esposito non denuncia le pretese totalitarie innescate dal green pass; anzi rintraccia l’esigenza di immunizzazione all’alba dei tempi.
Difendersi con il male minore
Cos’è l’immunizzazione? Esposito la definisce come la procedura di difesa dal male tramite l’introduzione di un male minore. Riprendendo ed estendendo a vari campi il principio vaccinale come se fosse la quintessenza dell’immunizzazione. Esposito vede questa idea in diversi ambiti politici, culturali, esistenziali.
Immunizzazione diviene quindi ogni difesa, discriminazione, autolimitazione, ovvero ogni distinzione tra ciò che va bene e ciò che non va bene. Il paradigma immunitario è questo: il proteggersi dal male col male stesso.
A livello politico, secondo Esposito, questo si manifesta nei paradossi della democrazia che si definisce come tale solo escludendo qualcuno (ad esempio i migranti), cioè negando il principio inclusivo su cui si basa.
Il dispositivo argomentativo di Esposito non è nuovo nella sua struttura (già formulata in Bíos. Biopolitica e filosofia, 2004), ma con gli eventi pandemici si arricchisce di un riscontro, che forse non era necessario.
È noto, infatti, che i sostenitori della biopolitica hanno trovato una conferma clamorosa e allo stesso tempo rischiosa negli eventi pandemici. Clamorosa perché la filosofia è da tempo abituata a giocare il ruolo assegnatole da Hegel di nottola di Minerva, ovvero di comprensione globale di un’epoca nel momento del suo compimento, e pertanto risulta sorpresa nel poter rivendicare di aver visto in anticipo delle tendenze poi divenute apparentemente visibili a tutti (la presunta tendenza biopolitica degli stati moderni a esercitare il proprio potere innanzitutto sulla vita biologica, più che sulla vita politica, delle persone).
Discrepanza tra realtà e ideale
Rischiosa perché l’eccesso di conferma empirica porta la filosofia a farsi espressione teorica dell’esistente e a perdere quello sguardo che la vorrebbe diversa dall’analisi dell’ordinario. O almeno questo è quello che Esposito potrebbe, in una sessione di autoanalisi professionale, amaramente ammettere del proprio approccio.
L’aspetto culturalmente discutibile non è però la non piena corrispondenza tra affermazioni teoriche e riscontri fattuali. Su questo, a voler essere precisi, si potrebbe per lo meno far notare che se l’immunizzazione significa il curare il male con un male minore come nei primi vaccini, la tecnologia mRna, in cui non si usa del materiale patogeno disattivato, non dovrebbe essere considerata immunologica, oppure dovrebbe portare a cambiare il paradigma immunitario stesso.
Più in generale, risulta problematico l’uso disinvolto dei piani discorsivi. Un esempio dall’analisi della democrazia basterà a mostrare il perverso dispositivo discorsivo. Da un lato, Esposito definisce la natura di una cosa (la democrazia) in base all’andamento fattuale della stessa.
Ciò significa, ad esempio, mostrare come la democrazia di fatto abbia da sempre significato governo delle élite e non del popolo. Dall’altro lato, tale cosa (la democrazia) viene criticata perché non riesce a raggiungere il proprio ideale.
Ciò sarebbe un fenomeno normale e noto a qualsiasi riflessione: la discrepanza tra realtà e ideale. Se fosse solo questo il punto, Esposito non aggiungerebbe niente a quanto già detto da molti. La tesi a cui Esposito tiene maggiormente è, invece, che la tendenza più fondamentale della democrazia, così come di molti altri fenomeni, è lo sfociare nel suo opposto, senza per questo generare una dinamica dialettica.
Questa ambiguità discorsiva rende le riflessioni di Esposito solo apparentemente critiche. Dico apparentemente perché il discorso si snoda in realtà in un continuo rimbalzo di piani: ciò che dovrebbe essere di diritto viene fatto collassare su ciò che è di fatto, e viceversa.
Il ping pong
È noto che il rapporto tra questi due piani è conflittuale e problematico, ma Esposito indulge nel criticare ciò che è a partire da ciò che dovrebbe essere e nel criticare ciò che dovrebbe essere in base a ciò che è, senza mai dire cosa sta facendo.
Questo ping pong esegetico gli permette di essere spietatamente critico con le pretese di giustizia alla luce di ciò che non va, e allo stesso tempo di essere molto scettico nei confronti degli ideali. È però un gioco troppo facile.
Non potendo sostenere la bontà generale di un criterio di giustizia (per esempio l’inclusione democratica) poiché lo vede essenzialmente fallimentare in pratica, Esposito, seguendo questa logica, non potrebbe nemmeno usare questo ideale per criticare l’andamento degenerato delle nostre istituzioni.
Facendo collassare ciò che dovrebbe essere di diritto su come vanno le cose di fatto, la teoria è solo apparentemente critica e le osservazioni conclusive del volume (di parziale critica degli aspetti ingiusti nella distribuzione di risorse) suonano come un recupero fuori tempo massimo di una retorica inclusiva ed egualitaria che nella sua prospettiva non dovrebbe avere alcuna base.
Un topolino
Anche il capitolo più propriamente politico, in cui Esposito denuncia la tendenza democratica a sfociare nel suo opposto, risulta molto minimale quanto alle proposte di soluzione.
Esposito, infatti, finisce per sostenere l’idea secondo cui il principio democratico si salva solo se incorpora contrappesi istituzionali ed elementi associativi della realtà sociale.
Pur essendo questa una tesi piuttosto plausibile (troppo plausibile, e coincidente con il tanto vituperato mainstream liberale), stupisce quanto a modestia di risultato.
La montagna teorica ha partorito un topolino che, lungi dal comportare grandi cambiamenti istituzionali, si avvicina ampiamente alla realtà dei fatti. Del resto, la conclusione veramente sorprendente del volume è un’altra: ovvero che l’immunizzazione è ciò che abbiamo sempre cercato di fare e quindi il nostro destino. Se è così, però, in questi due anni ci siamo sbagliati tutti. E non è chiaro di cosa dovremmo preoccuparci.
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