Degli chef televisivi Carlo Cracco è quello che ha cambiato più programmi, generi, piattaforme e, in un certo senso, pubblici. Dai programmi più di nicchia alla rivoluzione di Masterchef, a Hell’s Kitchen e ora forse al più ampio di tutti (per tipo di pubblico): Dinner Club. Un programma che lui definisce «fatto su misura per me», cioè pensato per quello che vuole fare in questa fase della sua vita.

La prima stagione è stata una sorpresa, la seconda una conferma e ora esce la terza (disponibile su Prime Video dal 21 novembre). Caso molto raro, questo è un format italiano alla cui ideazione ha contribuito Cracco stesso e, per certi versi, forse possibile solo sul territorio italiano: alcuni attori e attrici (diversi per ogni edizione) viaggiano per l’Italia incontrando e raccogliendo cose che poi mangiano.

Prima erano viaggi singoli con Cracco, questa volta è uno solo, fatto tutti insieme. Durante il viaggio passano per paesini e percorsi poco battuti (quest’anno sono sull’Appia Antica tra Lazio, Campania e Basilicata), incontrando produttori, signore che cucinano, realtà molto locali, ingredienti particolari e preparazioni uniche. In ogni puntata sono mostrati pezzi di questi viaggi, intervallati da una cena, fatta dopo il viaggio, in cui Cracco e gli attori e attrici ospiti cucinano quegli ingredienti o replicano quelle preparazioni e poi le mangiano. E quel momento che altrove è considerato “l’assaggio”, in cui si parla di ciò che si mangia, diventa qui invece un momento da talk show, in cui emergono gli argomenti più diversi.

In un certo senso, quindi, Dinner Club mette in scena due cose: la varietà e la profondità della cultura culinaria folkloristica italiana e la convivialità come la si conosce ed esprime in Italia.

Non è nemmeno un programma di cucina nel senso stretto del termine, «è un programma di persone che stanno insieme e condividono un percorso. In cui c’è la cucina, ovviamente» spiega lo stesso Cracco, che è il primo a precisare anche che un punto importante del programma non sia andare nei posti stupendi, i più facili, ma «in posti dimenticati da Dio, e la cosa ti dà tutta un’altra visione».

L’esplorazione della varietà delle realtà italiane è qualcosa che la TV fa da sempre, specialmente la Rai. Invece, le televisioni a pagamento sono più orientate alla cultura alta della cucina, con l’ambizione (dichiarata) di migliorare la cultura culinaria in Italia.

Pensi che questo sia uno di quei programmi?

«Noi siamo un po’ diversi, questo non è un game show e non cerchiamo il migliore. Andiamo a valorizzare il territorio, le persone e i prodotti. Stiamo a monte e, in un certo senso, siamo più umili, non miglioriamo niente».

Questa è la dimensione della cucina più adatta a te?

«No, sono solo periodi diversi. Questo è il genere che preferisco ora, non mi interessa l’altra parte perché l’ho fatta anche per un bel po’. Poi mi piace esplorare, non mi piace rimanere attaccato a una cosa, anche se siamo stati i primi a farla. Di certo non appartiene a me, ma va avanti ed evolve. Avendone la possibilità ho cercato di farmi un programma su misura che non sia un talent o un game».

Di fatto, quello che avviene in Dinner Club è la messa in scena spettacolarizzata di una parte del lavoro degli chef: la ricerca. Quando hai detto che questo è un programma che senti più tuo, intendi che questo tipo di viaggi li faresti comunque, a prescindere dal programma?

«E certo! Ovvio! Magari prima dall’artigiano nella malga che fa il formaggio ci andavo dritto, prendevo il formaggio, conoscevo lui e tornavo a casa. Invece la cosa bella che ho scoperto è andare lì e conoscere il territorio, conoscere le persone, andare oltre il prodotto: il prodotto lo fanno le persone, non solo il territorio».

E questo nella pratica cosa cambia?

«Noi alla fine che facciamo se non aprire ogni sera e sperare che la gente entri? Il rapporto umano e personale è fondamentale».

Tu lo definiresti un programma di cucina?

«No, è un programma di persone che stanno insieme. Siamo quel che mangiamo e, in un certo senso, non è diverso da altri, solo è fatto in maniera inusuale».

La maniera inusuale è fuori dalle cucine televisive in cui Cracco è stato per anni. Dopo gli aspiranti chef e i cuochi da formare, ora il Cracco televisivo è arrivato a questo: a come la cucina (professionale o no, più o meno alta), dagli ingredienti all'accoglienza fino alla convivialità, sia fatta di rapporti umani. Che questo sia raccontato in un programma con (in questa stagione) Christian De Sica, Antonio Albanese, Emanuela Fanelli, Rocco Papaleo, Corrado Guzzanti e Sabrina Ferilli, è la parte spettacolare.

Hai una voce nel decidere gli ospiti?

«Sì, li decidiamo insieme e, se decidiamo di puntare un attore o un’attrice, partiamo in anticipo, ci informiamo sui suoi spostamenti e i film che deve girare e lo incastriamo con una proposta precisa».

Pensi che questo programma “più tuo”, in cui hai una voce maggiore e un’incidenza maggiore, dica qualcosa della cultura gastronomica italiana?

«Credo sia molto rappresentativo. Non solo per la scoperta delle origini delle ricette e delle diverse versioni locali (confermando il famoso detto che ogni campanile in Italia ha una ricetta diversa dello stesso piatto), ma è proprio la storia regionale del nostro Paese. Quello che cerchiamo di scoprire è qualcosa di unico che non conosciamo ancora».

Cosa hai trovato che ti ha stupito di più?

«La disponibilità di queste persone».

Intendo delle ricette o degli ingredienti…

«Ma cosa vuoi che mi stupisca del cibo che faccio il cuoco da una vita! Quello che mi stupisce di più rispetto al resto è questa gente. Il mondo è abbastanza grande e io penso di avere un’apertura ampia, ma sulle persone rimango stupito: finiamo a conoscerne di uniche e speciali, e la cosa ti riempie».

E regolarmente mostrate i più strani.

«Sì, li troviamo tutti noi. [ride ndr] L’Appia Antica è stata la prima strada e basta davvero uscire un po’ dai soliti posti e si scoprono posti che sono completamente diversi da quelli da cui sei partito. Io, come gli altri compagni di viaggio, alla fine pensiamo di aver visto tutto e invece…»

Sì, ma tu fai dei sopralluoghi prima immagino. Quali dei posti che vedi scegliete?

«I più scomodi e quelli in cui troviamo una componente umana vera. Abbiamo in mente un percorso e per prima cosa decidiamo cosa è interessante e cosa no. Poi scartiamo le cose più scontate e note, a quel punto partono i sopralluoghi. Io do le mie valutazioni, ma ci sono molti autori che si muovono, è un lavoro puntiglioso. Alla fine, quando arriviamo con gli ospiti sappiamo che troviamo qualcosa, ma non prepariamo niente: le persone ci possono rispondere nei modi più diversi».

Immagino sia reciproco.

«Considera che, tolto Christian De Sica che ha una grandissima notorietà, e Rocco Papaleo in Basilicata, gli altri di solito non vengono riconosciuti, ci guardano come alieni. Ci vuole un po’ perché capiscano che, anche se vivono in mondi separati, stanno comunque avendo a che fare con qualcuno di vero».

E nonostante tutto questo, mi hai detto che non pensi che un programma del genere, con questa impostazione, possa cambiare qualcosa.

«Beh, parlare a tutti aiuta. Aiuta a far conoscere, a incuriosire. Poi non so quanto possa essere la quantità di questo cambiamento, però sicuramente aiuta. Lo so che oggi c’è maggiore consapevolezza di cosa sia e che opportunità offra il lavoro di chef, e che non è un “mestiere di riserva”. Ed è vero che persone che non ti aspetti oggi prendono in considerazione di farlo. Sì, forse la TV ha reso tutto questo più immediato. Lo ha amplificato».

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