Questo A pala e piccone di Vincenzo Scalfari, esordio da Marcos y Marcos, è un romanzo sulla turbolenza della giovinezza. Quando si è giovani c’è questo eccesso di energie che si trasforma in turbolenza fisica, col corpo che fa fatica a star fermo, e se non si riesce a fare qualche partitina di calcio, per lo meno bisogna girare su e giù da qualche parte.

Ma quando per caso si riesce a restare fermi, questa energia diventa una specie di turbolenza dei pensieri, anche i pensieri diventano continuamente perturbati. E vent’anni forse è l’apice di questa turbolenza che, potremmo dire, continua fino ai trenta, quando poi inizierà sempre di più a declinare.

Turbolenze archeologiche

Ma al tempo stesso questo libro sarebbe anche un romanzo sull’archeologia, che a prima vista non sembrerebbe una forma di vita adeguata alle turbolenze, ma talvolta può diventarlo. Là dove l’archeologia e la turbolenza riuscivano a generare una meravigliosa intersezione c’erano il sapere, l’amore e l’amicizia. Parallela a tutto questo, e per avvisarci di quanto nella vita tutto sia sempre appeso a un filo fatto di niente, c’era la morte che si presentava con le sue varie facce, che fossero femori di visigoti disgraziati, da recuperare negli scavi, oppure facce di persone conosciute.

È la Spagna, coi suoi siti sotto il sole e in mezzo a un rosso desertico, l’ambiente ideale nel quale il protagonista verrà trasportato da una sua mistura esistenziale fatta di spirito di avventura, ricerca di quel non so cosa che ognuno cerca per sé senza trovarlo, fuga da quel che già si conosce e non ti appassiona, amore per la cerveza e amore per ipotetiche donne, fino a quel momento non ancora incontrate.

E sarà proprio in Spagna che il nostro giovane apprendista archeologo, in fuga dai sanniti e dai resti dei loro muri, appena raggiunto Tiermes, il luogo dello scavo, essendo ancora piuttosto spaesato, andando in piena solitudine a contemplare degli avvoltoi che volavano coi loro cerchi sopra questo rosso desertico e vuoto, a un certo punto avrebbe visto lei.

Salire e scendere

Fin qui, si potrebbe dire, è tutto una discesa nella vita, percorsa a gran velocità ideale. Ma si sa che le cose non durano. Nel breve volgere di qualche tempo inizierà a arrivare la salita, cioè uno sgonfiamento multiplo dell’ideale che è al tempo stesso visione del reale. O una visione del reale che, man mano che lo vedi, ti sgonfia l’ideale. È difficile capire il verso causale della relazione. 

Alla fine non capirai più neanche se quella che ti sembrava discesa in realtà non fosse una salita, e quella che ti sembrava salita, una discesa. Inizia a sgonfiarsi lo scavo, inizia a sgonfiarsi la Spagna, inizia a sgonfiarsi l’amore. Inizia a esserci un certo fallimento. Ma quello che sembrerebbe un fallimento, diventa nel progredire della cosa, una specie di liberazione, una specie di chiave inglese per smontare tutte le varie mascherate dell’ideale, come il diventare archeologi, e anche per smontare la suprema delle mascherate dell’ideale, la Cultura, parola che nessuno sa neanche ancora che cosa significhi.

Una cosa seria? 

L’accettare di essere in verità, e di esser sempre stato, soltanto un povero fancazzista, amante delle piccole seduzioni quotidiane della vita (come prendersi due ore che diventano sei per bersi una birra con gli amici) è l’inizio di questo percorso di verità che nella pratica diventa soltanto la fuga finale, la fuga dagli scavi, la fuga dai muri, la fuga dai resti dei poveri visigoti. Ecco come iniziava il romanzo: «Badate bene: nella vita non si può sempre giocare, perché qua sono tutti convinti che la vita sia una cosa seria».

Sembrava l’avvertimento di un moralista, magari blando e poco aggressivo. Il problema, arrivati alla fine del libro, è che non si sa troppo bene chi è che gioca e quali giochi faccia, o meglio, quali siano i giochi, perché non si capisce più se il gioco è andare al bar oppure il gioco è fare gli archeologi, oppure il gioco è il grande amore. E poi, anche se tutti pensano che la vita è una cosa seria, noi non sappiamo chi sono questi tutti che lo pensano, e non sappiamo neanche se Scalfari è uno di questi tutti. Quindi? Quindi boh.

In mezzo a tutte queste spicconate, almeno due figure si salvano per la loro grandezza: la grandezza del sapere del professor Coarelli, eletto a suo maestro dal protagonista, immagine del vero sapere e di una simpatica umanità; la grandezza della disgrazia del povero Efoosa, il gigante picconatore nigeriano, che di archeologia non sa niente, ma spiccona e scarriola per riuscire a mandare 400 euro tutti i mesi alla famiglia, e che quando capisce che quella che gli hanno dato in mano è una lettera di licenziamento per l’ennesima fine dei finanziamenti dei lavori di scavo, si siede a piangere su una pietra e piange in modo irrimediabile. Così va la vita.


A pala e piccone (Marcos y Marcos 2023, pp. 176, euro 17) è il primo romanzo di Vincenzo Scalfari

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