C’è un nodo storico, culturale e religioso che accomuna i tre monoteismi: la terra promessa da Dio ad Abramo nella Genesi
La terra promessa da Dio ad Abramo nel dodicesimo capitolo della Genesi costituisce un nodo storico, culturale e religioso per i tre monoteismi che si richiamano alla figura del patriarca: innanzi tutto l’ebraismo e il cristianesimo, sin dalle rispettive origini, poi l’islam; terra anche per questo al centro di guerre da quasi trenta secoli.
Ma i due monoteismi più antichi sono quelli che per meno tempo – e con minore continuità – hanno avuto potere sulla regione, spesso invece soggetta a invasori pagani, dai babilonesi alle dinastie ellenistiche, fino ai romani.
Brevi sono stati infatti i periodi dell’indipendenza ebraica e, mezzo millennio più tardi, del predominio cristiano dopo la svolta costantiniana. Ai tre secoli della presenza bizantina pose fine nel 638 l’invasione araba. Da allora ha prevalso – pur interrotta tra il 1099 e il 1187 dalle crociate e dal regno latino di Gerusalemme, poi segnata da conflitti interni – la dominazione musulmana, sino alla sconfitta dell’Impero ottomano durante la Prima guerra mondiale.
Gli albori del sionismo
Un inatteso scenario si era però aperto da oltre mezzo secolo. Nel 1862 era stato infatti pubblicato il libro Roma e Gerusalemme, nel quale il filosofo Moses Hess delineava i primi tratti di un movimento di rinascita politica dell’ebraismo. Poi, dopo i grandi pogrom del 1881, si erano susseguite iniziative ebraiche diverse in Russia, Romania, Palestina. Erano gli albori del “sionismo”, un neologismo che nel 1890 viene coniato da Sion, il nome della collina gerosolimitana che nella Bibbia indica l’intera città.
Nel 1897 a Basilea si tiene il primo congresso sionista per iniziativa del giornalista Theodor Herzl, che già aveva lanciato l’idea di uno stato ebraico. Nel suo diario scrive di averlo fondato in quei giorni, aggiungendo che «forse fra cinque anni, e certamente fra cinquanta, tutti lo conosceranno».
Herzl muore già nel 1904, ma la sua previsione si realizza, e con un solo anno di ritardo: nel 1948, quando – dopo la Shoah – allo scadere del mandato britannico in Palestina viene proclamato lo stato di Israele.
Decisive per gli assetti dell’intero Medio Oriente si rivelano la sconfitta e la conseguente dissoluzione dell’Impero ottomano. Sulle sue future spoglie si misurano e si scontrano le ambizioni sia della Russia zarista che di Francia e Regno Unito. Ostili al dominio ottomano sono anche gli arabi che il 30 agosto 1915 ottengono dall’Alto commissario britannico in Egitto un sostegno, sia pure generico, alle loro rivendicazioni d’indipendenza, e si mobilitano contro i turchi, che erano sostenuti dai tedeschi.
La svolta del 1917
Francesi e britannici arrivano a disegnare con gli accordi tra François Georges-Picot e Mark Sykes le rispettive zone d’influenza nella regione. Ma per gli arabi una doccia fredda arriva nel 1917. Scrivendo il 2 novembre a Lionel Rothschild – primo ebreo a entrare nella Camera dei lord – il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour dichiara che «il governo di sua maestà vede con favore la creazione in Palestina di un focolare (home) nazionale per il popolo ebraico». Dove il termine home è lo stesso usato dal congresso di Basilea per descrivere lo scopo principale del sionismo.
Un mese più tardi, il 9 dicembre 1917, il generale Edmund Allenby entra a Gerusalemme, abbandonata a precipizio dalla guarnigione turca e tedesca. Con l’alto ufficiale britannico vi sono il maggiore Thomas Lawrence – l’archeologo alla guida della rivolta araba interpretato da Peter O’Toole nel film Lawrence d’Arabia – e Georges-Picot, il firmatario degli accordi con il Regno Unito, approvati anche dalla Russia ma poi superati dagli avvenimenti. E ad accompagnare il rappresentante francese come suo assistente è l’islamologo Louis Massignon, che Pio XI definirà il «cattolico musulmano» e che avrà un ruolo importante nell’avvicinamento all’islam.
L’occupazione della città, dove sfilano tre battaglioni di una “legione ebraica” incorporata nelle forze anglo-egiziane, urta i musulmani in Palestina. Dettate dai diversi schieramenti sono le reazioni in Europa, e prudente è la reazione vaticana: secondo il segretario di Stato Pietro Gasparri, «la Santa sede resta un’autorità sopranazionale, che non deve manifestare esultanza per un episodio della guerra» mondiale: se, a differenza dalle chiese romane, «avessimo fatto suonare le campane di San Pietro, questo sarebbe stato notato a Costantinopoli», spiega il cardinale.
Le due questioni
Le vicende convulse che si susseguono nel trentennio che porta alla proclamazione dello stato d’Israele sono «la storia delle illusioni perdute», come già nel 1937 nota con amarezza William Ormsby-Gore, rappresentante britannico alla Società delle nazioni. Ancora nel 1921 il congresso sionista di Carlsbad afferma «la determinazione del popolo ebraico di vivere con il popolo arabo in termini di unità e di mutuo rispetto». Di fronte però alla crescente immigrazione ebraica dal 1922 l’opposizione si fa sempre più violenta, con scioperi, guerriglia, attentati, terrorismo – dapprima arabo, poi ebraico – e prende di mira anche i britannici.
Mentre in tutta la regione declina l’influenza francese e falliscono le strategie britanniche, si registra «l’impavida costanza della politica pontificia, per non dire il suo immobilismo», come riassume in un intelligente studio di oltre ottocento pagine (Le Saint-Siège face à la «Question de Palestine», Honoré Champion) Agathe Mayeres-Rebernik. Che ha il merito di avere fondato la sua analisi sui documenti di venti archivi ma soprattutto sull’analisi di una bibliografia vastissima, soprattutto teologica.
Fin dal 1887 la politica mediorientale vaticana è posta di fronte a due questioni: la tutela dei luoghi santi, affidati sin dal Medioevo ai francescani, e la situazione dei cattolici, in gran parte arabi. Una minoranza di comunità spesso antichissime, ma sempre più ristrette e che rischiano la sparizione. Come trent’anni fa mostrava il preoccupante panorama di quasi mille pagine (Vie et mort des chrétiens d’Orient, Fayard) scritto da un ignoto diplomatico francese con lo pseudonimo di Jean-Pierre Valognes, e come conferma la sintesi di Ronald G. Roberson (The Eastern Christian Churches, cnewa.org).
Il ripudio dell’antisemitismo
Ma la questione della Palestina non induce la Santa sede a occuparsi, come nei secoli passati, soltanto della protezione dei luoghi santi e della sorte dei cristiani, che non sono solo cattolici. Il ritorno degli ebrei nella terra di Israele induce infatti i teologi cristiani, già tra le due guerre mondiali, a riaprire la riflessione sui rapporti con la tradizione ebraica e con gli ebrei, resa urgente dall’antisemitismo e dalla Shoah, grazie soprattutto all’opera pionieristica e fondamentale dello storico ebreo Jules Isaac.
Per quanto riguarda i rapporti dei cattolici con il mondo musulmano, svolge un ruolo centrale Massignon: soprattutto attraverso esperienze mistiche per rinnovarli secondo una visione audace, in parte irrealistica, ma sostenuta da conoscenze vastissime. Con un percorso personale e spirituale che lo porta a enfatizzare l’importanza di Abramo e quella della Vergine Maria. E grazie anche a lui il Concilio Vaticano II esprimerà, nella dichiarazione Nostra aetate, «stima» nei confronti dell’islam.
Se quasi isolato risulta l’itinerario di Massignon (che dal sionismo passa nel 1938 a un antisionismo radicale), ben più rilevanti e ricche sono le reazioni cristiane – soprattutto quelle cattoliche – di fronte al movimento di rinascita ebraica. In definitiva si tratta infatti del ruolo del popolo da cui è nato Cristo e della stessa chiesa nella prospettiva della fine della storia, secondo la visione del «mistero di Israele» tracciata da san Paolo in tre capitoli (9-11) della Lettera ai Romani: l’ebraismo è «radice santa» e irrevocabili sono «i doni e la chiamata di Dio».
Nel contesto del grande rinnovamento biblico e per superare il tradizionale antigiudaismo cristiano matura così tra le due guerre mondiali e si afferma – soprattutto dopo la Shoah – un importante e variegato filosemitismo, rispondendo così alle sollecitazioni di Isaac.
Protagonisti sono intellettuali e teologi come Jacques Maritain, Charles Journet, Erik Peterson, Karl Barth, Hans Urs von Balthasar, e la riflessione va alla radice della prima lacerazione: quella tra la sinagoga e la chiesa nascente. Che porta al ripudio dell’antisemitismo da parte del concilio e nel 2017 all’affermazione di Benedetto XVI secondo la quale la nascita dello stato di Israele, pur laica, in senso lato esprime la «fedeltà di Dio al popolo di Israele».
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