A lungo la meno rimaneggiata delle quattro grandi basiliche cristiane di Roma, San Paolo fuori le mura venne danneggiata pesantemente da un incendio nel 1823. Aprendo una stagione di intenso dibattito sulla forma della sua ricostruzione
Delle quattro grandi basiliche cristiane di Roma, ben tre risalgono alla precocissima iniziativa di Costantino, dal 312 fino al trasferimento dell’imperatore a oriente nel 326. «“Pigliatevi questo posto”, disse Costantino a papa Silvestro. “È tutto vostro. Io parto e non tornerò”» immaginava Evelyn Waugh nel suo divertente – e altrettanto storicamente fondato – romanzo intitolato Elena, la madre dell’imperatore. E il sovrano specifica: «Potete tenervi la vostra vecchia Roma, santo padre, con i suoi Pietro e Paolo e i suoi cunicoli pieni di martiri».
Le basiliche
In ordine cronologico le tre basiliche sono la lateranense, cattedrale ma anche sede per oltre un millennio dei vescovi della città, quella vaticana sulla tomba di san Pietro, e la terza, molto più piccola, sul luogo del martirio di san Paolo, lungo la via Ostiense.
A queste si aggiunge, un secolo più tardi, la quarta, dedicata a Maria – proclamata «madre di Dio» dal concilio di Efeso del 431 – e che poco dopo viene offerta da Sisto III al «popolo di Dio», come si legge tuttora sullo splendente mosaico dell’arco trionfale.
Costantino, attento nello stesso tempo a pagani e cristiani, non aveva voluto intraprendere una cristianizzazione della città – avviata mezzo secolo più tardi da papa Damaso – perché la sua attività edilizia aveva coinvolto per il Laterano una proprietà imperiale a ridosso delle mura Aureliane, e per le basiliche in onore degli apostoli due zone in piena campagna, dov’erano le necropoli vaticana e ostiense.
Un po’ più centrale era invece Santa Maria, del secolo successivo (ma detta liberiana da papa Liberio, protagonista della leggenda secondo la quale una nevicata in agosto avrebbe indicato il luogo della futura chiesa), sorta su fondamenta probabilmente di età augustea.
Nessuna delle quattro basiliche ora «papali» – e dette «patriarcali» fino a quando Benedetto XVI ha lasciato cadere nel 2006 il titolo di «patriarca d’occidente» – è rimasta com’era alle origini, per un succedersi continuo di trasformazioni. Queste hanno coinvolto soprattutto il Laterano e San Pietro, in concorrenza tra loro nel corso di tutto il medioevo.
L’enorme complesso lateranense, cuore della donazione di Costantino e sede papale per più di mille anni, è stato notevolmente ridotto tra il 1586 e il 1589 da Sisto V – uno dei più papi che più hanno modellato il volto di Roma – e l’attuale San Giovanni è frutto del rifacimento borrominiano di oltre mezzo secolo dopo. Più o meno negli stessi anni veniva ultimata la nuova basilica di San Pietro che, iniziata nel 1506, aveva sostituto totalmente quella costantiniana, veneranda ma molto malridotta.
Meno stravolte sono state le basiliche liberiana e ostiense. In13 secoli, dalla prima metà del V agli inizi del XIX, ha conservato l’aspetto antico dell’interno Santa Maria Maggiore, pur trasformata, e indagata con finezza da Stephen Ostrow (L’arte dei papi, Carocci). E quasi intatta era – fino a un rovinoso incendio scoppiato nel 1823 – San Paolo fuori le mura, isolata nella campagna verso Ostia, a circa tre chilometri dalla città.
I ritratti dei papi
Le tombe dei due apostoli a cui si richiamava la comunità cristiana di Roma, che peraltro esisteva prima dell’arrivo di entrambi, erano venerate già nella seconda metà del II secolo nelle necropoli – ovviamente pagane – lungo le vie Trionfale e Ostiense. Ma se gli architetti di Costantino avevano dovuto sbancare un’intera collina e sul cimitero interrato avevano fondato l’enorme basilica vaticana, per onorare san Paolo innalzarono solo un piccolo edificio.
Fu papa Damaso, che nei suoi celebri epigrammi aveva esaltato i due apostoli come «nuove stelle» al posto di Romolo e Remo, a volere intorno al 383 una grande chiesa che prendesse il posto di quella costantiniana.
Inaugurata un decennio più tardi e nota come la basilica dei tre imperatori (Valentiniano II, Teodosio, Arcadio), San Paolo venne completata da Onorio e rinnovata dopo il 442, al tempo di Leone Magno, il primo di cui sia conservata la predicazione (in uno splendido latino) e unico a essere denominato «magno» insieme a Gregorio, morto nel 604.
A papa Leone, importante per l’affermazione del primato romano, risale non a caso l’origine dei ritratti papali affrescati sulle pareti di San Paolo. Della serie antica – continuata e anch’essa vittima dell’incendio del 1823 – sono sopravvissuti 41 tondi: sono enigmatici volti idealizzati, simili alle coeve raffigurazioni pagane e ai vividi ritratti in rosso e in giallo di san Paolo e di san Pietro riemersi nel 2009 durante gli scavi nelle vicine catacombe intitolate a santa Tecla, discepola del primo.
Per secoli la serie dei ritratti, di continuo aggiornata e dopo l’incendio ricollocata in mosaico sopra le navate della nuova basilica, è stata considerata quasi l’elenco ufficiale dei papi, ma con errori e incertezze sulla legittimità canonica di alcuni. Così dei 273 pontefici romani di San Paolo tre non sono mai esistiti, due mancano e otto sono gli antipapi.
Una ventina di anni fa lo spazio destinato a continuare la serie si era quasi esaurito – ed è la molla di un romanzo immaginario di Olaf Kirtimukh riedito nel 2013 con il titolo La vigilia della fine (Fazi) – e si è subito provveduto a predisporre le cornici per altri 26 papi.
L’incendio
La basilica ostiense, accanto alla quale era sorto nel medioevo un monastero, aveva conservato, pur con qualche cambiamento, l’aspetto tardoantico ancor più di Santa Maria Maggiore: «Rimaneva genuino» scriveva lapidario nel 1818 un giovane seminarista inglese, Nicholas Wiseman, futuro cardinale e autore del fortunatissimo romanzo Fabiola o la Chiesa delle catacombe. Fino appunto all’incendio del 1823.
Era la notte tra il 15 e il 16 luglio. Come ogni estate i monaci, per evitare la malaria, si erano trasferiti in città, a San Callisto, e in quei giorni alcuni operai lavoravano nell’antichissimo edificio per restaurarvi il tetto.
Proprio da qui partì – per incuria o per un incidente o forse per un attentato – l’incendio: sembrava l’eruzione di un vulcano che si poteva vedere da «quindici, e più miglia» si legge in una cronaca di allora. Ma i pompieri arrivarono solo ore dopo, quando ormai il rogo era inarrestabile.
Dei danni subiti dalla basilica restano molte testimonianze immediate, tra cui quella di Stendhal. Lo scrittore visita le rovine il giorno dopo l’incendio e vi trova «una bellezza severa e un’impronta di sventura». Poi ha la sensazione di «qualcosa di misterioso» legato al disastro e alla diceria popolare che non vi fosse più spazio per la serie dei ritratti papali, mentre da dieci giorni l’ottantunenne Pio VII era ormai immobilizzato per una frattura del femore. E conclude: «Perché non dirlo apertamente? A San Paolo eravamo veramente cristiani».
Lo stesso giorno Luigi Poletti, l’architetto modenese che avrebbe avuto grande parte nella ricostruzione, scrive al fratello: «La perdita nelle arti, e nel valore è incalcolabile, perché oltre la bellezza conteneva 100 colonne di marmi rarissimi di Asia ed Affrica». Davvero «era una meraviglia di arte. Questo evento ricorda i famosi incendi del tempio di Diana in Efeso da Erostrato per desio d’immortalarsi come narra Vitruvio, e l’altro di Gerusalemme».
La riedificazione
Al vecchio papa, che da giovane era stato monaco nel monastero adiacente alla basilica e sarebbe morto un mese più tardi, la notizia viene tenuta nascosta. Ma l’impressione è dovunque enorme e già due settimane dopo il disastro si inizia a discutere della riedificazione di San Paolo, e per la prima volta viene lanciata, all’inizio con grande successo, una sottoscrizione internazionale.
È una stagione di dibattiti intensi – con polemiche e critiche anche feroci sul risultato finale – che si protrae per anni e porta alla ricostruzione della basilica nelle sue forme originarie.
Un laboratorio di idee (anche teologiche) ora ricostruite in tutti i suoi risvolti, dalla storia dell’arte a quella della cultura, in un magnifico libro (Ricostruire la Chiesa, Viella) da Richard Wittman.
Analizzando i documenti lo storico statunitense conferma così la rivalutazione della città papale – «capitale delle arti» tra gli anni napoleonici e quelli dell’unità d’Italia – che nel 2003 fu consacrata dalle tre innovative mostre sulla «maestà di Roma».
Mentre insomma declinava l’insostenibile potere temporale, il papato reagiva con la propaganda artistica, capace di «rispondere, agire e prosperare in un nuovo mondo» conclude con ragione Wittman. Attraverso la ricostruzione di un’antica basilica proprio com’era. O come si pensava che fosse.
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