Una polacca, una bielorussa e una moscovita fra le prime tre, sette ragazze ceke fra le migliori 36 al mondo. Alla ricerca di un nuovo grande personaggio dopo Serena Williams, arrivano storie di riscatto. Come nella boxe
Non si scopre l’acqua calda scorrendo la classifica delle migliori tenniste al mondo e trovandoci più –ova che nei pollai: quelle che prima erano Anna Kournikova, Maria Sharapova e Svetlana Kuznetsova di madre Russia, oggi hanno mutato qualche desinenza e, talora, patria ma sempre si va a parare là, nel vecchio blocco dell’Est.
Numero uno del tennis è Iga Swiatek, Polonia. Numero due, Aryna Sabalenka, Bielorussia. Tre, Elena Rybakina (Kazakistan per finta, Russia per davvero). Poco più sotto, altre atlete parecchio competitive, russe di nome e passaporto: Daria Kasatkina (11) e Veronika Kudermetova (14).
Dopodiché, un battaglione di ceche: la stagionata ma ancora competitiva Petra Kvitova, due volte campionessa di Wimbledon; la donna degli exploit Markéta Vondroušová, freschissima regina sui prati di Church Road; la recente finalista di Parigi dal tennis delizioso, Karolina Muchova.
Nelle prime 36 posizioni del ranking sette atlete della Repubblica ceca; quattro di loro sono stabili tra le prime venti. Dopodiché, nei piani alti, sono rappresentate la Lettonia (con la ex campionessa del Roland Garros Jelena Ostapenko) e si sta rinsaldando la triade ucraina Svitolina-Kalinina-Kostyuk - ex numero 3 Wta, la prima, poi ferma per maternità.
Le grandi del passato
La rappresentanza di una scuola storica nello sport della racchetta non è, insomma, qualcosa che possa sorprendere, se si pensa alla quantità di ragazze cresciute in nazioni dalla solida tradizione tennistica e già protagoniste di epoche più fortunate. Martina Navratilova, Hana Mandlikova e, più avanti, la povera Jana Novotna – pace all’anima sua e del suo tennis d’attacco – avevano segnato una strada e costituivano la risposta dell’Est alla concorrenza strabordante degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale.
Martina Hingis, la maestrina a cavallo del vecchio e nuovo millennio, era svizzera per il fisco ma sportivamente slovacca; toccava a lei contendere gli Slam alle sorelle Serena e Venus Williams, a Lindsay Davenport, a Jennifer Capriati e al blocco occidentale: Kim Clijsters e Justine Henin (Belgio), Amelie Mauresmo e Mary Pierce (Francia) fino alla primavera italiana dal 2010 in poi: Francesca Schiavone, Flavia Pennetta, Roberta Vinci, Sara Errani.
Dopodiché, più di una operazione di marketing sbagliata e progetti interrotti di campionesse – Naomi Osaka in crisi di identità e poi in maternità, Ash Barty appagata e ritirata all’età di Bjorn Borg, meteore come Sofia Kenin o Jennifer Brady, fuoriclasse a stagioni alterne come Halep o Muguruza, giovani predestinate dal fisico fragile come Bianca Andreescu - hanno progressivamente condotto alla carenza cronica di personaggi spendibili e al simultaneo allontanamento di sponsor storici, stante l’affievolirsi dell’interesse pubblico.
Le Wta Finals giocate a Fort Worth a fine 2022 - l’omologo delle Atp Finals di Torino - hanno restituito un’immagine sconfortante: 14.000 posti nella Dickies Arena, un migliaio i biglietti venduti il primo giorno. A dispetto della presenza della terza giocatrice del mondo, la miliardaria in dollari Jessica Pegula, figlia del proprietario di Sabres e Bills, due illustri franchigie di hockey e football di Buffalo.
Nell’indifferenza dei più, il titolo se lo è aggiudicato una potenziale regina come Caroline Garcia, fisico da nuotatrice e anima di cristallo, una dotazione insufficiente per aspirare al ruolo di comando.
L’ascensore sociale
Giacché il tennis femminile sta diventando territorio di preda per carenza di antagonismi, riesce più semplice spiegarsi la sua nuova identità, probabilmente più subita che voluta, di palcoscenico ideale per belle storie di riscatto.
Non è il massimo, soprattutto dopo aver sperato, magari con un eccesso fideistico, di poter gareggiare in popolarità con i colleghi maschi durante la sacra triade Federer-Nadal-Djokovic, Una, se non l’unica, chiave di racconto spendibile, in questi ultimi anni, la si trova in vicende in cui i montepremi e la popolarità della racchetta funzionano come un formidabile ascensore sociale, come un tempo tra gli uomini accadeva con la boxe.
Markéta Vondroušová ha appena vinto, da numero 42 al mondo, il torneo più importante del globo, Wimbledon. Volendo utilizzare un’immagine calcistica, una parte non secondaria del suo trionfo nasce dallo scansarsi della concorrenza. Compresa l’autodistruzione, in finale, della tunisina Ons Jabeur – altro fatto pressoché privo di precedenti, che una giocatrice di valore assoluto spunti da una terra in cui si fatica a trovare acqua per bagnare i campi e trenta dinari per un tubo di palline.
A dispetto di una finale persa nel 2019 al Roland Garros contro Barty, Vondroušová è una giocatrice non autosufficiente per gli Slam. Ha un robusto tennis mancino ma nulla di trascendentale e, per eccellere, ha bisogno che le altre le diano una mano: proprio come è accaduto contro Pegula, disgraziatamente bloccata dal panico sulla palla del 5-1 nel terzo set nei quarti di finale.
Della pur brava ceca, una come Serena Williams avrebbe fatto scempio ma il Generale Tempo ha costretto la detentrice di ventitré titoli Slam a mollare, senza lasciare eredi.
Il primo titolo major dell’anno, invece, era finito nelle mani di Aryna Sabalenka da Minsk, un peso massimo abituato a prendere a pugni la palla. Risolto un problema col servizio, che verosimilmente ne celava uno di autostima, sta iniziando a intestarsi ampie proprietà nella prateria della Wta. Con una mano meno squadrata, ma spesso agendo di roncola, anche Elena Rybakina ha già conquistato un titolo Slam (Wimbledon 2022) e si è giocata la finale australiana di fronte a Sabalenka.
Moscovita di nascita e crescita, Rybakina rappresenta il Kazakistan in virtù di un accordo commerciale che permette alla ex repubblica sovietica di appaltare la carriera di giocatrici non considerate strategiche dalla madrepatria e offrire loro passaporto e militanza nelle competizioni a squadre, in cambio di copiosi finanziamenti. Ma non avrebbe trovato tanta abbondanza, fosse transitata nel Tour vent’anni fa.
Le adolescenti
Un talento nella precocità è, poi, Mirra Andreeva, sedici anni, siberiana come Sharapova, anche lei spinta lontano dalle nevi – non in Florida, come capitò a Maria, ma a Cannes – per trovare la sua via di sbocco verso il successo. In un amen, dal debutto Wta nel 2022, Andreeva è già titolare di una seconda settimana Slam. È successo a Wimbledon, grazie a una corsa straordinaria a spese di altre due –ova: Anastasia Potapova (ex ragazzina prodigio, oggi ventiduenne e con classifica pari all’età) e la one-time-wonder Barbora Krejčíková, transitata dalla pratica assidua del doppio al titolo in singolare a Parigi 2021, tra la sorpresa – se non lo sconcerto – generale.
In questa saga da basso impero all’occupazione di terreni sguarniti spicca, infine, la storia delle Fruhvirtová. Brenda è nata a Praga, nell’anno di Andreeva. Con la sorella Linda, di due anni più adulta e già titolare di un torneo del circuito maggiore, sta macinando punti nel ranking Wta e, come le altre ragazze a caccia di gloria, sa che lassù c’è solo un muro da abbattere: Iga Swiatek, non per caso capace di accumulare strisce vincenti degne delle Williams nei periodi più dispotici – lo scorso anno restò imbattuta per 135 giorni e 37 partite, quest’anno non ha replicato solo per via di qualche bua.
La polacca ha già messo le mani su quattro Slam e tre Roland Garros, compreso l’ultimo. Che una donna confermasse il titolo a Parigi non accadeva dal 2007, autrice Justine Henin. Che non se ne perdessero le tracce in pochi mesi, pure.
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