Programmi o ideali? Cosa serve ai progressisti per vincere le elezioni e ritemprare democrazie affaticate? La risposta spontanea è anche la più semplice, servono entrambe le cose: buone risposte per i bisogni di persone, famiglie, imprese, e solidi valori ai quali ancorare una visione giusta di società.

Ricetta scontata, peccato che sulle due sponde atlantiche gli ultimi decenni abbiano visto il prevalere di spinte disgreganti sino all’imporsi di nuovi nazionalismi cullati nei contenitori di destre autoritarie a conferma dell’antico divario tra teoria e prassi, o tra un buon metodo e la sua traduzione politica.

A colmare in parte lo scarto provvede ora il volume in uscita da Laterza di Daniel Chandler (Liberi e uguali. Manifesto per una società giusta). Lettura impietosa dei limiti culturali di un progressismo impigrito fondata sul recupero di John Rawls e di un impianto che sui concetti di giustizia inclusiva ed equità ha tracciato la rotta per società meno diseguali nelle posizioni di partenza e negli esiti.

Dunque, un bel saggio impregnato di buona teoria? Non proprio, o non solo, perché il pregio maggiore sta nel dettaglio di una seria agenda di governo corredata di proposte, analisi delle risorse da impiegare e potenziali effetti benefici sulla qualità del vivere di una maggioranza della popolazione.

In altre parole, un’alternativa alla destra scortata, però, oltre che di buone intenzioni da un possibile cronoprogramma per le forze del campo largo o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare.

Il potere del ceto ricco

Due dati aiutano a capire l’utilità del metodo. Il primo quantitativo: al principio del vecchio secolo i paesi democratici ammontavano a 12, oggi almeno formalmente sono 118, i quasi due terzi del totale. L’altro è qualitativo e si può riassumere così.

Nel 2014, due politologi americani si sono presi la briga di analizzare poco meno di 1.800 proposte di modifica delle politiche da parte del governo federale degli Stati Uniti tra il 1998 e il 2002. Gli argomenti oggetto della ricerca andavano dai servizi sociali alla sanità sino alla politica estera. L’obiettivo era calcolare quale rapporto legasse le decisioni assunte con gli orientamenti di tre grandi gruppi distinti: cittadini medi, cittadini ricchi e gruppi di interesse (sindacati, enti benefici, associazioni di categoria).

I risultati, giudicati dall’autore sorprendenti, certificavano come le preferenze dei cittadini medi avevano un impatto pressoché nullo sulle norme adottate, qualche influenza in più veniva esercitata dai gruppi di interesse e dalle lobby, ma la conclusione inequivoca era che il ceto ricco esercita sulla politica americana «un’influenza spropositata determinando una forbice sempre più larga tra ciò che la maggior parte degli americani desidera e ciò che di fatto ottiene».

Se colleghiamo la fotografia alla tendenza astensionista (l’ultimo voto tedesco fa eccezione per una serie di contingenze) a uscire confermata è una sfiducia verso la democrazia da parte di milioni di persone convinte dell’inutilità del loro impegno, fosse soltanto quello di uscire di casa e depositare una scheda nell’urna.

Spiega Chandler quale conseguenza del tutto la necessità di riprogettare la democrazia, ma dal basso propugnando una uguaglianza politica che l’involuzione di assetti e sistemi di potere ha colpevolmente penalizzato.

L’agenda riformista

Da queste premesse si sviluppa un’agenda riformista che spazia dal ruolo dei media e una sua necessaria regolamentazione alla pratica dei “bilanci partecipati” come nuovi strumenti del coinvolgimento democratico, agli interventi necessari sul versante dell’istruzione pubblica per prevenire la cristallizzazione ereditaria delle penalità di partenza.

E ancora, le proposte sui prestiti per la formazione qualificata da subordinare al reddito futuro, la revisione radicale dei sussidi di disoccupazione aprendo il dossier (certamente complesso) di un reddito di base universale e incondizionato, l’impatto delle regole sul salario minimo e su un ampio ventaglio di misure nel diritto del lavoro (dalla cogestione alla partecipazione azionaria dei dipendenti e condivisione degli utili), per giungere al capitolo decisivo della fiscalità senza eludere il tabù di una ragionevole imposta patrimoniale oltre alla scontata revisione di aliquote e franchigie sulle tasse di successione.

Una lettura attenta porta a riconoscere in molte delle proposte un richiamo all’elaborazione preziosa condotta in questi anni dal Forum Disuguaglianze Diversità come riassunta venerdì scorso su queste pagine da Fabrizio Barca, Elena Granaglia, Andrea Morniroli, il che fa pensare a quei ritardi che una maggiore apertura e ascolto di quanto andava muovendosi oltre il perimetro dei partiti avrebbe potuto evitare.

Ma è la conclusione di Chandler a meritare i riflettori, laddove pone in evidenza un assoluto bisogno di concretezza delle riforme mai più scisso da una ragionevole utopia, ovviamente se il traguardo è rispondere a un mondo democratico sottoposto oggi alla più aspra e frontale delle aggressioni. Al fondo lo stesso consenso a destre sempre più venate da pulsioni autoritarie e illiberali deriva da questo vuoto di riferimenti ideali e concreti e dall’incertezza conseguente che investe oggi il destino delle democrazie liberali.

Non subire il capitalismo

Proprio qui il ragionamento si fa più incalzante nel senso di indurre una politica democratica a non subire l’idea di un capitalismo capace di vivere e riprodursi “aldilà di ogni possibilità di riforma”. La sintesi può apparire ambiziosa, ma corrisponde al tempo storico nel quale siamo immersi: «Si tratta niente meno che di reinventare la politica progressista per il XXI secolo».

Insomma, non è scritto negli astri che l’evoluzione del capitalismo debba rimanere inchiodata alle regole del passato o trasferirsi a nuovi dettami che una manciata di potentissimi e arrogantissimi multimiliardari vorrebbe imporre. Il tema è ricollocare al centro la sfera della dignità e della libertà di ogni singolo individuo, considerando la stessa sfida ambientale parte del traguardo.

E allora, dal sistema scolastico al raddoppio dell’impegno per contrastare disuguaglianze razziali e di genere, da un reddito di base alla possibilità di restituire a lavoratrici e lavoratori il senso di un’esistenza non consacrata al denaro, sono molti gli affluenti che conducono a una società più equa e soprattutto più umana. Naturalmente tutto questo da solo non basta.

Serve una capacità della politica nel costruire quel movimento dal basso capace di vincere le elezioni e di “usare il potere per trasformare radicalmente le nostre istituzioni politiche ed economiche”.

Gli obiettivi smarriti

L’ammonimento in questo caso è rivolto a quelle forze progressiste (alzi la mano chi può dirsi innocente) che nel tempo hanno privilegiato un’offerta programmatica rivolta a gruppi specifici piuttosto che un programma coerente frutto della miscela ricercata di valori, progetti, consenso.

Quella scorciatoia apparente ha fatto sì che troppe persone smarrissero ogni chiarezza sugli obiettivi di partiti progressisti via via somiglianti a organizzazioni tattiche tese a perseguire il proprio vantaggio elettorale. Se volete, è la vecchia regola sulla politica migliore, intesa come quella capace di guidare evitando di inseguire.

Oppure, la si può leggere come riconquista di una autonomia di pensiero che si presenti di nuovo al mondo con una tesi sostanzialmente morale «del perché e del come si possa cambiare la società in meglio». La sintesi? Tu chiamalo se vuoi, socialismo.

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