Il poeta riproposto fino alla nausea nell’anniversario della morte non è una serie Netflix o un eroe gay friendly. Il suo valore oggi è la vocazione a diventare concavo e convesso, creando una letteratura dotata di infiniti strati
- Tra i molti libri usciti quest’anno, il più audace e pop è la Danteide di Piero Trellini (Bompiani). Il guaio è che Dante non è vissuto in un feuilleton, e dare risalto a una visione infantile e semplificata della realtà non aiuta a comprenderlo.
- Se non è un feuilleton né un monumento, che cosa può essere oggi Dante per noi? Certo non un improbabile “femminista”. Dante è stato, questo sì, l’inventore della lingua italiana.
- Ma Dante è soprattutto uno straordinario esempio di come, a partire da un engagement politico ed etico, i suoi testi abbiano saputo conquistarsi altri spessori e affidarsi all’ascolto della propria ispirazione.
Il 25 marzo 1300 è il giorno in cui Dante ha immaginato di entrare nella selva oscura da cui uscirà soltanto mediante il viaggio ultraterreno raccontato nella Commedia; ma quest’anno è anche il settecentesimo dalla sua morte, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.
Tra i molti libri usciti quest’anno, il più audace e pop è la Danteide di Piero Trellini (Bompiani). Impegno serio, frutto di laboriosa documentazione (più di cinquemila testi consultati, ci informa la bibliografia) e ispirato al desiderio di rendere Dante interessante per i giovani; non un’interpretazione dell’opera né una biografia in senso stretto, ma un tentativo di raccontare il mondo che girava intorno a Dante, quel che lui ha visto.
Ricco di attualizzazioni divertenti (Dante presente a tutti gli eventi storici come Forrest Gump, il “rat pack” dei giovani stilnovisti) e di informazioni curiose (l’abitudine dantesca di spingere in avanti la mandibola, l’origine sarda e medievale del termine ‘camorra’) o poco conosciute (l’influenza dell’arabo Libro della scala attraverso la traduzione latina di Bonaventura da Siena), il libro ha l’andamento di un romanzo d’avventura, per non dire di una serie televisiva. La storia avanza per colpi di scena, coincidenze fantasmagoriche, misteri, generalizzazioni a effetto.
Tutto vi è esagerato ed estremizzato: per esempio una supposta povertà di Dante prima dell’esilio sulla base di alcune richieste di soldi in prestito – sennonché i soldi chiesti sono tantissimi e, come nota Alessandro Barbero nella sua recente attendibilissima biografia dantesca (Dante, Laterza), «Solo i ricchi possono disporre delle relazioni e delle fideiussioni necessarie per indebitarsi su larga scala»; Dante era «possessore di un discreto patrimonio» e rientrava «nella fascia più alta dei contribuenti», se no non avrebbe potuto pagarsi cavallo e armatura per combattere a Campaldino. Trellini racconta questo scontro comunale con toni inutilmente epici e, per Dante, trionfalistici («Il corpo armato del giovane poeta diventa il perno geometrico dell’intera battaglia»); più in generale, di ogni evento si sottolineano gli aspetti clamorosi e piccanti, senza negarsi compiacimenti splatter o gossippari – il guaio è che Dante non è vissuto in un feuilleton, e dare risalto a una visione infantile e semplificata della realtà non aiuta a comprenderlo.
Propensione all’agiografia
La divulgazione è un’altra cosa, e se romanzo dev’essere allora che lo sia intero: Balzac nei Proscritti prende per buono il discusso soggiorno di Dante a Parigi e, quando un giovane room mate chiede a Dante di leggergli un canto dell’Inferno, Balzac non si tira indietro e ne inventa uno lui, di sana pianta. La Danteide di Trellini resta una mezza cosa, chiusa in un materialismo radicale che dovrebbe svalutare la torre d’avorio dei letterati (davvero quelli per Beatrice sono «versi mendaci» mentre un documento notarile basta a rendere la moglie Gemma «reale e immortale»?); la voglia di popolarità stilizza e deforma le figure storiche (papa Bonifacio VIII come vilain carico di ogni nequizia), riduce l’analisi stilistica a mera statistica computazionale e raffigura un Dante che «Rompendo con la sua superforza un pozzetto di marmo» salva dall’annegamento un infante battezzando (peccato che Mirko Tavoni abbia efficacemente dimostrato che quelle del Battistero di San Giovanni erano anfore di coccio).
La tendenza retorica all’agiografia è sempre in agguato quando si parla di Dante. Già nell’autunno scorso, anticipando tutti, Aldo Cazzullo aveva fatto uscire per Mondadori il suo A riveder le stelle: un compendio dell’Inferno in stile di chiacchiera spiritosa, centrato sull’idea del sottotitolo, “il poeta che inventò l’Italia”. Riallacciandosi al filone risorgimentale come si sviluppò in occasione del seicentesimo anniversario della nascita (1865, a guerre d’indipendenza ancora in corso), Cazzullo afferma e ripete che Dante è stato «Il fondatore della nostra comunità nazionale», pur sapendo che nell’orizzonte politico dantesco l’idea di ‘nazione’ non aveva posto alcuno – il Dante di prima dell’esilio era occupato nelle lotte comunali, poi si allargò alle piccole signorie dell’appennino e della pianura padana per terminare sull’idea dell’Impero universale, rispetto al quale la sorgente nazione francese era vista come un ostacolo e l’Italia tutt’al più poteva esistere come “giardino” dell’Impero stesso.
Appartiene alla prospettiva neo-risorgimentale anche l’immagine di un Dante senza macchia e senza paura: sdegnoso nell’esilio (ma se è vero che nel 1315 rifiutò un’umiliante amnistia, nel 1304 aveva ben scritto a Firenze dicendosi pentito e chiedendo perdono), estraneo a ogni idea di vendetta (ma nel girone dei seminatori di discordia è lui che si sente in difetto per non aver vendicato il parente Geri ucciso in una faida), certo della propria innocenza (ma, teste ancora Barbero, l’accusa di concussione per cui era stato condannato, cioè di aver garantito qualche finanziamento agli amici nei mesi in cui era stato priore, era forse non del tutto infondata). Nient’altro che un wishful thinking è il fervorino finale: «La poesia di Dante consente a ognuno di noi di pensare che il peggio sia alle spalle».
Dante oggi
Se non è un feuilleton né un monumento, che cosa può essere oggi Dante per noi? Certo non un improbabile “femminista”, sulla scorta del fatto (come è stato detto) che le donne dei trovatori provenzali non parlavano mentre Beatrice sì; a parte il fatto che le donne dei trovatori parlavano eccome, c’erano anche delle “trovatrici” (e che la protagonista del provenzale Romanzo di Flamenca ottiene addirittura di poter frequentare l’amante col benestare del marito), Beatrice parla soltanto sulla cima del Purgatorio e in Paradiso, quando è diventata un rimorso di coscienza di Dante medesimo e un soldato della milizia celeste. Né si può gratificare col titolo di gay friendly chi definisce gli omosessuali “lerci” del peccato di sodomia. Non è su queste presunte eccezionalità trendy che potremo misurare la grandezza di Dante, né sul suo essere diventato un’icona che si può spezzettare in testi digitali e multimediali.
Dante è stato, questo sì, l’inventore della lingua italiana; anche grazie a un malinteso, per cui lesse i poeti siciliani toscanizzati dai copisti e si convinse che potesse esistere una lingua curiale e illustre capace di unificare il nuovo volgare al di sopra dei dialetti. Uno degli handicap della letteratura italiana è che il suo maggior rappresentante abbia scritto in una lingua che ora i giovani non sono più in grado di capire; mi chiedo quando finalmente ci si deciderà a tradurre le opere dantesche in italiano contemporaneo – non con traduzioni ‘di servizio’ come si è fatto finora, ma chiedendo ai nostri migliori scrittori di fornirne una traduzione letteraria soddisfacente, ovviamente con l’originale a fronte. Leggendolo in modo non accademico, e confrontando forma con forma, rifulgeranno l’energia verbale e la forza figurativa con cui ha modellato il suo accidentato percorso ideologico, pieno di compromessi e contraddizioni, nonché di umane debolezze (basta consultare i libri di due critici scomparsi ma vivissimi come Umberto Carpi e Marco Santagata); la Commedia è anche un instant book, impregnato dei conti che Dante doveva rendere ai potenti presso cui si impiegava di volta in volta, facendo funzioni di segretario e cancelliere.
Ma Dante è soprattutto uno straordinario esempio di come, a partire da un engagement politico ed etico, i suoi testi abbiano saputo conquistarsi altri spessori e affidarsi all’ascolto della propria ispirazione («Poi piovve dentro a l’alta fantasia», e Calvino commentava che da questo verso si impara come la fantasia sia un posto dove ci piove dentro). Mediante un procedimento che potremmo chiamare di condensazione per analogia, Dante si fa concavo rispetto alla vocazione incarnando le allegorie nel proprio corpo, si fa passivo rispetto a un “dittatore” interno e poco importa che per lui si tratti di Dio. In un momento come questo, in cui sembra che l’impegno letterario si possa declinare soltanto come controllo ossessivo sui contenuti, Dante insegna di quanti strati possa essere fatta la letteratura e questa lezione mi pare il suo più interessante seme di attualità.
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