- A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri è lecito domandarsi come leggere la Commedia nel XXI secolo. Di cosa parla, proprio a noi, oggi, la Divina Commedia? Cosa racconta della nostra vita?
- Non sono in grado di dire quale sia – ammesso che esista – l’interpretazione autentica della poetica di Dante, e in particolar modo della Commedia. Posso provare a spiegare verso quali strani luoghi sta conducendo me.
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Viviamo in un mondo polarizzato. Dunque, in assenza di sfumature, viviamo in un mondo cieco. Bianchi contro neri. Carnefici contro vittime. Da una parte i cattivi e dall’altra i buoni, con noi immancabilmente tra le file di questi ultimi.
A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri è lecito domandarsi come leggere la Commedia nel XXI secolo. Le celebrazioni dantesche sono così sinceramente sentite e condivise da lasciare pochi dubbi su ciò che di importante si muove dietro le forme della ricorrenza. Nondimeno, sono talmente fragorosi questi festeggiamenti (trasmissioni televisive e radiofoniche, letture pubbliche, iniziative editoriali, convegni, conferenze, festival) da rendere faticoso il compito di attraversare le stanze del “grande party su Dante Alighieri” per raggiungere la stanzetta, di solito meno illuminata, della nostra coscienza. Di cosa parla, proprio a noi, oggi, la Divina Commedia? Cosa racconta della nostra vita?
Non sono un dantista, non sono uno specialista, sono uno scrittore ma soprattutto un lettore accanito, e dunque un individuo dentro cui l’opera di Dante (come quella di Shakespeare o di Cervantes) continua a lavorare, a farsi strada, a cambiare forma nel tempo.
Da adolescente la Commedia mi suggeriva cose diverse da quelle che ho creduto di percepire a trent’anni. Oggi, me ne comunica altre ancora. Leggiamo libri a cui sopravvivremo. E poi leggiamo libri che ci sopravvivranno. La Commedia è tra questi ultimi: è entrata in contatto con me quando ero un ragazzo, ha continuato a rovistare nella mia vita adulta, sguscerà fuori da me e dai miei contemporanei quando saremo tutti morti proseguendo il suo cammino nella vita di altri ragazzi, gli adulti del futuro.
Su cosa sia l’inferno di Dante, rispetto a noi contemporanei, e in che consista il suo viaggio oltremondano, ho avuto occasione di interrogarmi molto negli ultimi tempi, soprattutto a causa di una brutta storia di cui mi sono occupato. Non sono in grado di dire quale sia – ammesso che esista – l’interpretazione autentica della poetica di Dante, e in particolar modo della Commedia. Posso provare a spiegare verso quali strani luoghi sta conducendo me. Ma prima ci sono delle premesse da fare.
L’inferno sulla terra
In un passo molto noto de Le città invisibili Italo Calvino sostiene che l’inferno dei viventi non è “qualcosa che sarà”. Se ne esiste uno, è già qui, davanti ai nostri occhi. Il brano prosegue con un invito all’ottimismo della volontà – l’autore ci esorta a riconoscere ciò che inferno non è, e a dargli spazio –, ed è probabilmente a causa di questa conclusione che negli anni il suddetto passo è stato celebrato oltre le soglie della retorica. Felici di essere chiamati a fare la nostra parte, persuasi di essere proprio noi gli eletti, quelli a cui è affidato il compito di riconoscere ciò che inferno non è, di tutelarlo, di proteggerlo, di dargli addirittura spazio, dimentichiamo la prima parte del discorso, e cioè l’inquietante circostanza che l’inferno, se esiste, è già qui.
Come riconoscerlo? Questa è la domanda a cui di solito chi cita Le città invisibili, tutto preso da una dubbia investitura, non si sente chiamato a rispondere. Facciamo dunque un passo indietro: siamo sicuri di saper distinguere tra ciò che è perduto per sempre e ciò che chiede la nostra cura per essere salvato? Piantiamo la nostra tenda su questa linea di confine: al di là c’è l’inferno, al di qua ci siamo noi. Ma è proprio così?
Sembrerebbe un bizzarro rovesciamento del meno celebre – ma indubbiamente iperbolico – assunto del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar quando scriveva che l’inferno esiste ma è vuoto. È vuoto laggiù al centro della terra, mentre quassù, stando a Le città invisibili, dovremmo dedurre che non solo esista ma sia piuttosto frequentato. Si tratterebbe inoltre di un posto caratterizzato da una evidente natura contraddittoria: temporanea e definitiva. Come può non essere eterno essendo inferno? E come può non essere transitorio appartenendo al nostro mondo?
Disciogliere il confine
Visto che siamo in vena di rovesciamenti (il XXI secolo dovrà pur cominciare a mangiare in salsa piccante quello che l’ha preceduto) potremmo provare, senza spostarci da questa ipotetica linea di confine, ad aggredire Jean-Paul Sartre. «L’inferno sono gli altri». Se questo è vero, se lo sguardo degli altri ci denuda e ci ferisce in un tremendo gioco di rispecchiamenti dove incomunicabilità e alienazione hanno la meglio sulla nostra fragilità di assetati (di autenticità, di completezza, di conoscenza), il nostro sguardo avrà lo stesso effetto sugli altri individui: per ognuno di essi, gli altri siamo noi. Ecco che la linea di confine, sia pure molto ambigua, dove ci illudevamo di sostare qualche ora, si dissolve. Era una linea tracciata con la sabbia, il vento l’ha già spazzata via. L’inferno siamo noi.
Viviamo come si dice in un mondo polarizzato. Dunque, in assenza di sfumature, viviamo in un mondo cieco. Bianchi contro neri. Carnefici contro vittime. Da una parte i cattivi e dall’altra i buoni, con noi immancabilmente tra le file di questi ultimi.
Non riusciamo ad autorappresentarci come agenti del male, ma abbiamo molto allenato ultimamente la nostra vocazione vittimaria. Nel corso della vita ci capita di subire ingiustizia e violenza, è quasi inevitabile. Quando si è oppressi da un’ingiustizia è giusto protestare, è giusto denunciare, è giusto lottare perché l’offesa venga rimossa, l’offensore disarmato, ma soprattutto disinnescato il dispositivo che produce questo genere di male.
(Benché, secondo Simone Weil, una delle maestre che il XXI secolo farebbe bene a portare con sé, tanto è stato poco compresa e assimilata dal secolo scorso, ingiustizia e violenza ledono nell’uomo qualcosa di sacro, ma non è quella la parte che protesta, non è quella la parte che rivendica, non è quella la parte che prova a organizzarsi per difendersi e contrattaccare. Secondo Simone Weil lo scandalo ontologico sarebbe privo di una voce udibile all’esterno, dal momento che: «Non basta un’offesa alla persona e ai suoi desideri per farlo sgorgare: quel grido sgorga sempre per la sensazione di un contatto con l’ingiustizia attraverso il dolore. Spesso si alzano anche grida di protesta personale, ma quelle non hanno importanza; se ne possono provocare a volontà senza violare alcunché di sacro. Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale»).
Se c’è qualcosa di sacro, in noi, è impersonale.
La vocazione vittimaria
Lasciamo decantare questo concetto vertiginoso. Lo riprenderemo più tardi. Restiamo per adesso sulla dicotomia vittima/carnefice. Da dove nasce, all’interno di questa retorica, la nostra vocazione vittimaria? Ammettendo che non abbia a che fare con la nostra parte sacra, non è per questo priva di importanza. La vocazione vittimaria nasce, ultimamente, da una giustificata sete di giustizia, la quale tuttavia (per così dire) una volta “messa a terra”, circostanziata, può finire all’atto pratico per svilupparsi in modo distorto.
La sete di giustizia di cui parlo è generata a sua volta dalla china piuttosto inaspettata che ha preso il mondo negli ultimi trent’anni. Crollo della classe media, impoverimento della piccola borghesia, perdita di rappresentatività e di protagonismo, allargamento pauroso della forbice tra ricchi e poveri. Sono tutti scossoni che, per come si era sviluppato il secondo Novecento, hanno colto la maggior parte di noi di sorpresa.
Il Novecento ha portato via con sé le ideologie nate dai grandi maestri del sospetto che avevano infiammato il pensiero europeo tra XIX e XX secolo. Il sogno della giustizia sociale aveva per così dire un suo apparato, una sua forza, una sua capacità di cambiare le cose, di incidere sulla Storia, nonché (non c’è sogno che non possa rovesciarsi in incubo) la speculare capacità di generare tirannia, prevaricazione e atrocità.
L’Europa occidentale non ha fatto l’esperienza dello stalinismo né del grigiore e dell’oppressione sovietica: da noi – anche in forza della dialettica obbligata con l’altra parte – il dispositivo sviluppatosi dalle grandi teorie emancipative della tarda modernità (partiti di massa, intellettuali, sindacati, istituzioni culturali) ha funzionato bene per quasi cinquant’anni. Adesso non esiste quasi più. Soli davanti all’avversario, sentiamo di perdere terreno ogni giorno che passa.
Il testo è estratto dall’intervento integrale di Nicola Lagioia contenuto nel libro: Se tu segui tua stella, non puoi fallire. I grandi narratori raccontano il loro Dante, edito da Bur Rizzoli in collaborazione con ADI in uscita il 21 settembre.
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