Come sopravvivere al lutto di una persona amata e come vivere la sua assenza: il regista canadese torna su uno dei temi a lui più cari con The Shrouds, al cinema dal 3 aprile. «Il dolore di ognuno è unico. È una cosa molto personale. Con questo film ho esplorato la mia sofferenza ma non l’ho attenuata, non si risolve girando un film, non cambia, è sempre lì e non se ne andrà mai»
Come sopravvivere al lutto di una persona amata e come vivere la sua assenza? Dopo aver teneramente abbracciato il proprio cadavere nel cortometraggio The Death of David Cronenberg (2021), realizzato dalla figlia Caitlin, il maestro canadese 82enne affronta la morte di sua moglie Carolyn e di una parte di se stesso con The Shrouds, un erratico thriller esistenzialista dalle tinte grigie in concorso a Cannes 2024.
Nel film, l’alter ego di Cronenberg è Karsh (Vincent Cassel), un uomo d’affari che, inconsolabile dopo la morte della compagna, inventa GraveTech, un controverso cimitero tecnologico in cui i vivi possono seguire attraverso rivoluzionari sudari hi-tech la decomposizione dei loro cari, ma un giorno alcune tombe vengono profanate e il sistema hackerato.
In questo 23esimo film presentato in anteprima nazionale al BAFF (Busto Arsizio Film Festival), l’autore di capolavori come La zona morta, Videodrome, Crash o Inseparabili riunisce molti temi che hanno attraversato le sue opere: la morte, i gemelli, le mutazioni fisiche, il rapporto corpo/macchina, ossessioni che non potevano mancare in questa autofinzione crepuscolare, al cinema con Europictures dal 3 aprile.
Il suo protagonista cerca di alleviare il dolore per la perdita della compagna attraverso l’uso della tecnologia. Girare questo film è stato un modo per lenire il lutto di sua moglie? Quanto è personale questo film?
Anche se è molto personale, non appena inizi a scrivere i personaggi, il film diventa finzione. I protagonisti prendono vita propria e cominciano a fare e a dire cose che non ti aspetti. È vero, il film si ispira alla mia esperienza con la morte e al sentimento di perdita che continuo dopo anni a provare, ma non è una storia realistica o autobiografica, e continuo a non considerare l'arte una terapia. Ho capito che il dolore di ognuno è unico. Quando è morta mia moglie Carolyne, ho letto tutti i libri sull’elaborazione del lutto: John Didion, C.S. Lewis e così via, ma non ho ritrovato la mia esperienza nelle loro pagine. Non mi riconoscevo nei loro sentimenti e così ho capito che il lutto è una cosa molto personale. Con The Shrouds ho esplorato la mia sofferenza ma non l’ho attenuata, il dolore della scomparsa non si risolve girando un film, non cambia, è sempre lì e non se ne andrà mai.
Se la tecnologia di un sudario che permette di seguire la decomposizione dei corpi fosse esistita, l’avrebbe usata per sua moglie?
Sì, penso che l'avrei fatto. In realtà la tecnologia del sudario esiste, se pensiamo alla risonanza magnetica, alle TAC o altri strumenti che si potrebbero benissimo usare all’interno di una tomba. Non è fantascienza, non c’è niente nel film che non potrebbe essere creato oggi se qualcuno volesse investire soldi e tempo per svilupparlo.
Lei ha dichiarato che il cinema è un arte cimiteriale, non pensa che sia anche uno strumento che rende immortali?
Penso che le due cose vadano di pari passo. Durante la pandemia ho passato molto tempo a guardare vecchi film e mi sono reso conto che tutti quelli che si erano impegnati a realizzare quei film erano morti: gli attori, i registi, i tecnici. Mi sono reso conto che in fondo il cinema è una specie di cimitero vivente. L’arte è per sua natura postuma, se si pensa per esempio alla fotografia, nell'istante in cui scatti, immortali un momento perduto, morto, che non tornerà mai più.
Con i suoi film lei è riuscito ad affrontare e a rompere ogni tabù, compreso quello della morte. C'è ancora qualcosa che la sconvolge oggi?
Certi politici mi scioccano. Siamo creature piuttosto sorprendenti, facciamo cose meravigliose ma anche cose orribili, e sono quelle che continuano a sconvolgermi.
Si riferisce a qualcuno o a qualcosa in particolare?
Il mondo è in completo subbuglio e a causa dell’attuale amministrazione Trump, in Canada ci sentiamo improvvisamente molto minacciati dagli Stati Uniti. Per noi è un vero shock e ci sentiamo anche traditi, soprattutto per chi come me ha un padre nato negli Stati Uniti.
Da dove nasce la sua passione e ossessione per il corpo? La sua è una ricerca identitaria?
No, è davvero la mia consapevolezza di ciò che è la vita umana: un corpo. Nel mio film precedente, Crimes of the Future, c’è un mantra che dice il corpo è realtà. E penso che sia totalmente vero per qualsiasi animale: percepiamo il mondo e le cose a seconda del nostro corpo. Cos’è che un regista di film drammatici riprende di più? Il corpo umano, i volti, i fisici, i suoni che il corpo emette quando parla. La mia non è un'ossessione, è una percezione della condizione umana che cerco di approfondire con i miei film.
Cronenberghiano. Che effetto fa essere diventato un aggettivo? Non ha mai avuto paura di rimanere intrappolato in uno stile che il pubblico si aspetta da lei?
Ne sono piuttosto orgoglioso. Se penso a Fellini o a Bergman… Certo, è impossibile racchiudere l’intero lavoro e la sensibilità di un regista in una parola, ma lo trovo piuttosto affascinante. Onestamente non mi sono mai preoccupato di quello che gli spettatori si aspettano da me. So che molti amici registi di fantascienza e di horror con cui ho iniziato hanno sentito una forte pressione del pubblico nelle loro carriere, penso a George Romero, John Carpenter o Wes Craven. A un certo punto si sono sentiti intrappolati in un genere e quando hanno provato a fare qualcos’altro è stato un fallimento, quindi sono tornati all’horror. Ho sempre pensato di essere prima di tutto un regista e che l’horror fosse solo un tipo di film che potevo fare. Ho sperimentato generi molto diversi con film come Inseparabili, che sono riuscito a finanziare dopo 10 anni grazie a Jeremy Irons, oppure La promessa dell’assassino, Cosmopolis o il biografico A Dangerous Method. Non mi sono mai messo a tavolino dicendomi ora voglio fare un film di gangster, è stato tutto casuale.
The Shrouds doveva essere una serie che alla fine Netflix non ha avuto il coraggio di produrre. È sorpreso che gli streamers siano così conservatori?
Sì, perché ai suoi inizi Netflix ha prodotto cose molto interessanti che potevano posizionarli come contraltare agli studios hollywoodiani. Hanno prodotto film e serie in tutto il mondo senza farsi influenzare dal gusto mainstream degli americani. Ma a un certo punto hanno raggiunto un tale numero di abbonati sempre più insaziabili e drogati di contenuti che sono diventati molto più conservatori. Ora i soldi per produrre sono diminuiti molto in confronto ai budget folli degli inizi. Oggi gli streamers sono solo un'altra versione della vecchia Hollywood, e questo è uno dei motivi per cui ora è ancora più difficile ottenere finanziamenti per un film indipendente.
Chi sono i registi o i film che le hanno fatto nascere il desiderio di fare cinema?
Da bambino, sicuramente i film di pirati, di cappa e spada o i film d’avventura come I 10 della legione con Burt Lancaster (1951). Ovviamente anche i western perché da piccolo, negli anni '40 e '50, un film su tre era western. Il cavaliere della valle solitaria (1953) mi colpì moltissimo. A Toronto, andavamo tutti al cinema il sabato pomeriggio in una sala che proiettava film per bambini, ma dall'altra parte della strada c'era un piccolo cinema che si chiamava The Studio. Proiettava principalmente film in italiano anche senza sottotitoli, perché c’era una grande comunità di immigrati italiani nel quartiere. Un giorno uscendo dalla proiezione del western Hop-a-long Cassidy vidi degli spettatori uscire dal cinema di fronte, erano tutti adulti e molti di loro erano in lacrime. Fu uno shock incredibile, perché mi resi conto per la prima volta che un film poteva far piangere i grandi. Mi precipitai a vedere il manifesto del film che li aveva sconvolti ed era La strada di Fellini. Scoprire che un film poteva avere un tale potere sugli spettatori fu una vera rivelazione per me. Da quel momento cruciale iniziai a nutrire un’ossessione per il cinema d’autore e a divorare i film di Bergman, Fellini, Bertolucci, Kurosawa, Truffaut, Godard.
Per lei il cinema è un elisir di eterna giovinezza?
Non credo, sto pensando a un nuovo progetto e non ho ancora finito di fare film, ma francamente il sentirmi “giovane” era molto più legato all’essere stato innamorato di mia moglie per 43 anni.
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