In Italia Spillover è stato pubblicato nel 2017 da Adelphi ma sono serviti tre anni prima che il pubblico lo notasse. Solo nel 2020 infatti è riuscito a farsi largo tra i titoli che affollano le librerie, giungendo alla classifica dei più venduti. Il motivo: in Spillover viene prevista una pandemia di un virus zoonotico – causata da un salto di specie: uno spillover appunto. Come quella di Covid-19. La previsione si basava su un concetto ovvio: a intaccare ambienti che dovrebbero essere riservati alla natura andiamo incontro al rischio di pandemie. L’autore di Spillover è lo statunitense David Quammen, appena tornato in libreria con Il cuore selvaggio della naturaAdelphi, 2024.

Com’è nato questo libro?

Dalla collaborazione con National Geographic, durata molti anni. Mi chiesero se volessi andare in Congo con uno scienziato americano e dissi sì. Era un mondo nuovo per me, ma mi dava l’idea di un’avventura bellissima. E così fu. Io e Michael Fay, l’ecologo con cui partii, abbiamo fatto molti viaggi insieme, dopo quello; fu l’inizio di una bella amicizia. Ecco, il libro raccoglie alcune di quelle avventure.

Ce n’è una a cui è affezionato?

Ero con Nick Nichols; pure lui sarebbe poi diventato mio grande amico. Fummo spediti a fotografare e raccontare uno degli alberi più imponenti del mondo: The president – una sequoia gigantesca. Andai in California, comprai degli stivali da neve – era inverno, ché Nick voleva fotografarlo innevato –, e raggiunsi il gruppo al Sequoia National Park. Erano già al lavoro. Avevano montato delle funi lungo tutta l’altezza dell’albero. Lo salivano con dei moschettoni, mentre io, da terra, li osservavo raccogliendo i dettagli che avrei inserito nel pezzo. Finito il lavoro, mi arrampicai anch’io: stupendo. Si vedeva l’intera foresta da lassù, una distesa infinita. Ero senza fiato. La mattina dopo, quindi, mi svegliai all’alba, mi rinfilai gli stivali e tornai dal Presidente, camminando nella neve per tre miglia. Volevo ringraziarlo. Giunto ai suoi piedi, mentre lo guardavo, attorno a me il silenzio, una folata di vento smosse i rami e una spruzzata di neve leggera, dolce mi cadde addosso. Dissi gesundheit! È tedesco, si usa per augurare buona fortuna a qualcuno.

La sua avventura più spaventosa, invece?

Quando venni inseguito da un elefante. Ero con Douglas Hamilton e lui provò a respingerlo urlando, alzando le braccia per sembrare più grosso. L’elefante però lo caricò lo stesso: tirò su il capo e lo lanciò per aria con le zanne. Io ero corso via, ero lontano e pensai che Douglas fosse morto. Per fortuna no, sopravvisse – e chissà come.

La più bella?

Probabilmente, il primo viaggio con Fay – quello con cui si apre il libro. Passammo cinquantatré giorni nella foresta del Congo; nuotammo nelle acque nere, dormimmo per terra tra serpenti velenosi, camminammo tra alberi giganteschi. Quel viaggio è stato uno dei privilegi più grandi della mia vita: ho potuto vedere cose, visitare luoghi e incontrare animali che alla stragrande maggioranza delle persone sono preclusi.

Parla di questi luoghi con molto rispetto. Qualcosa che va sparendo, mi pare. Perché accade? Perché abbiamo la tendenza a credere che il pianeta sia il nostro personale parco giochi?

Soprattutto per arroganza, pensiamo che l’uomo sia la forma più alta tra le specie, che il mondo sia stato creato per noi soltanto, ma naturalmente non è così. Il mondo ha le capacità per soddisfare i nostri bisogni, certo, però non i nostri desideri; c’è una grande differenza. La popolazione ha, ormai, raggiunto un numero troppo elevato e le risorse, soprattutto, non vengono distribuite equamente. La natura non ha più di quanto ha e però noi continuiamo a mostrare una fame eccessiva, smodata, una fame che il pianeta, appunto, non può, davvero non può, soddisfare.

Aldilà dell’arroganza, però, per arrecare danno a un essere vivente, sia un animale o un intero ecosistema, è anche necessario, credo io, metter in moto un meccanismo di spersonalizzazione: quello che ho davanti non è, non sente e non prova, è a mia disposizione.

Sì, lei ha ragione. Penso sia una sorta di mancanza d’immaginazione: le persone spesso non riescono a immaginare che un topo, un albero possa provare dolore. Lo vedono, lo trovano brutto o inutile o gli è d’intralcio e non hanno problemi a essere crudeli, fargli del male, magari ucciderlo.

In tal senso pensa che abbiamo imparato qualcosa dalla pandemia?

Sono molto frustrato da quanto poco abbiamo imparato.

Mi parli di questo poco.

La cosa più importante: abbiamo imparato a creare i vaccini RMNA in poco tempo. Non ancora a distribuirli bene per avere giustizia nei Paesi poveri ma è di certo un passo avanti, questo dobbiamo dirlo. Nonostante tutto, però, quando dovremo affrontare una nuova pandemia, succederà e questo è sicuro, saremo meno preparati.

Lo crede davvero?

Sì.

Perché?

Prima della pandemia di Covid-19 a mettere in dubbio la medicina – ma in generale la scienza – erano in pochi, oggi sono in molti. La mancanza di fiducia verso la medicina nel 2020 ha preso a dilagare, ed è un guaio, un problema che non dovremmo sottovalutare. Le teorie del complotto, l’idea che dietro ogni accadimento ci sia una cospirazione sono malattie che vanno curate, non ignorate.

Perché pensa che molti preferiscono affidarsi a storie assurde, come quelle che sono circolate sul Covid-19, piuttosto che alla scienza?

Lei ha usato la parola più giusta, la più adatta: storie. Le persone hanno bisogno di storie. Ne ho scritto in Senza respiro (Adelphi 2022). Per quanto sembri folle che ci sia gente che non ha problemi a credere in teorie strampalate, per nulla attendibili come quelle, così è.

D’accordo, ma la ragione qual è?

Gliel’ho detto: la necessità di una storia. Prenda quella che ha circolato di più sul Covid-19: che sia il risultato di un esperimento di laboratorio andato male. Una storia del genere ha a che fare con i segreti, con buoni da una parte, noi, e cattivi dall’altra, loro – in questo caso, i cinesi –, con i soldi, con dei piani orditi da multinazionali. Questa storia ha in sé delle componenti drammatiche, ecco, e la gente ama le storie drammatiche.

Anche quella che riguarda il salto, lo spillover, dal pipistrello a una persona, però, è una storia.

Certo. La storia è questa: ogni animale, potenzialmente, potrebbe essere veicolo di un virus, virus che potrebbe anche infettarci e nuocerci. Fine. Nient’altro. Niente di drammatico, nessun pathos, niente buoni e cattivi. C’è solo il concetto per cui se andiamo a disturbare degli esseri viventi che non dovremmo disturbare, se intacchiamo zone del pianeta che non dovrebbero essere intaccate, rischiamo. E la colpa è solo nostra.

Non molto avvincente. La scienza non offre dei nemici. Le storie sì. Le storie offrono una direzione verso cui rivolgere la tua rabbia.

Esatto. I cinesi! Anzi no, i russi! Anzi no… così via. Ci serve un nemico, una narrazione e le storie ce li danno.

Quammen, chi la conosce si divide in due schieramenti, oggi: chi la considera un cartomante, uno sciamano che può prevedere il futuro e chi uno scienziato ben informato. Mi fa una previsione?

Come vuole che le risponda, da cartomante o da scienziato? – ride.

Come preferisce. Se lo immagina, il mondo tra cinquant’anni?

Le rispondo da scienziato e da essere umano – nient’altro. Non sono un ottimista di natura, anzi: tendo al pessimismo. Ma credo che la speranza non sia una condizione psicologica, credo, piuttosto, che sia un compito e che ciascuno di noi debba essere fiducioso. Perciò, per rispondere alla sua domanda, le dico che credo che riusciremo a tirarci fuori dal guaio, enorme, gigantesco, in cui ci siamo cacciati. La crisi climatica è la sfida più grande che l’umanità dovrà affrontare nel prossimo futuro, e penso che ce la farà. Perderemo tanto, ecosistemi e specie non esisteranno più e saranno dei lutti pesanti, ma riusciremo a correrei ai ripari, alla fine, e a sopravvivere.

Lo crede davvero?

Lo spero. La speranza è compito di ciascuno, gliel’ho detto.

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