In tempi di caldo e di afa, di agosto e di lavoro, di turismo e di overtourism sembra nell’immobilità tutta italiana che insegue le stagioni una dopo l’altra, che lo sforzo a rallentare sia ormai maggiore del piacere di smettere, di riposare e anche di andare finalmente in vacanza.

Perché in fondo come ebbe già a dire, bruscamente e brillantemente, Sergio Marchionne: «Ma in ferie da cosa?». Non si tratta infatti solo dell’annosa questione della produttività italiana, anchilosata da anni di retorica e mai promossa sul piano delle buone pratiche, ma si tratta ancora più intimamente di piacere, di quella forma di benessere che appartiene alla relazione, all’incontro e in alcuni rari e fortunati casi all’amore.

Noia e stanchezza

La stanchezza infatti sembra proprio agire in quella parte di noi – o per dirla da grande editorialista – in quella parte di paese, che va bene o va male tutto, ma l’amore e gli amici non si toccano. E invece proprio l’amore e gli amici, nel luogo sovrano dell’estate, sembrano mostrare la corda o meglio sembrano mostrare la stanchezza di un tempo ormai così asfittico che la malattia della nonna come la solitudine della zia finisce per ricadere ed occupare totalmente e inevitabilmente questi corpi poco produttivi, poco felici e ormai decisamente poco giovani (rassodati) riducendo di conseguenza gli amici a uno spreco di tempo futile e stancante e l’amore ad una scelta radicale quanto mai atroce e patetica: o con me o senza di me.

Una noia forse, ma che poco c’entra ormai con Alberto Moravia e invece più con lo scrollo di uno smartphone che ha ridotto le nostre capacità intellettive e aumentato la sola agilità di un pollice la cui esistenza opponibile sulle nostre mani non certifica più quello stato evolutivo di cui abbiamo potuto vantarci per anni, ma solo il gesto triste di una società tendenzialmente anche un po’ stitica.

Fingiamo con fare nostalgico di desiderare che Bruno Cortona venga a citofonarci o almeno che ci mandi un vocale intimandoci di scendere giù, di raggiungerlo per poi andare dove via, dove capita, dove magari qualcosa si riesce a racimolare: soldi, amore, avventura.

Ci crediamo studenti modello, ma di Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant nell’immortale Sorpasso di Dino Risi) conserviamo solo la solitudine e quella breve incoscienza un po’ frigida, per dirla con Goffredo Parise che ci porta a rischiare solo quando è inevitabile farlo. Noi che pure abbiamo combattuto e vinto il Covid, eroi da salotto che ancora conteggiano i morti in famiglia come stelle al petto, morti di cui – data la pandemia – abbiamo potuto evitare il funerale, un bel fastidio di meno e un coraggio da leoni senza fine.

Ora si dà il caso che in questo pasticcio annoiato grondiamo disfunzionalità da ogni poro, ma soprattutto in questo stallo sembriamo incapaci di ritrovare il verso giusto: quale la destra, quale la sinistra, quale il nord e quale il sud. Un bel problema tanto più in un tempo di repubblica dall’autonomia differenziata (un po’ come la raccolta rifiuti).

Gli intellettuali

Un tempo, e lo sappiamo fino al punto di averlo mitizzato, ci saremmo rivolti ai cosiddetti intellettuali, ma oggi tutto è cambiato, ma soprattutto i cosiddetti intellettuali sembrano incapaci di viaggiare, salvo pratica attenta di specializzazione. Perché se un tempo ovviamente chiunque facesse parte della categoria dei pensatori si sentisse in obbligo e non solo in curiosità di viaggiare, da Parise a Calvino, da Morante a Pasolini e Moravia, oggi pare che questo muoversi e relazionarsi con il mondo non riguardi più chi scrive e pensa se non in quella forma privata che si declina quale serena vacanza borghese.

Altro discorso è per chi si specializza e allora da Terzani a Rumiz solo di viaggio si può scrivere e solo del viaggio si può desumere. Per tutto il resto abbiamo così solo (più o meno) improvvisati e simpatici content creator pronti a dirci dove dormire e dove mangiare in Birmania come in Bretagna, dall’esotico al regionale, per tutto il resto, chi siamo e dove andiamo, affari nostri.

Orfani 

L’individualismo è diventato così estremo che non ci resta che frazionarci come isterici dirigenti di sinistra. A chi rivolgerci così per consigli (veri) e intuizioni (vere)? Detto in altre parole, l’odore dell’India e d’America come imparare a coglierlo e a riconoscerlo? Come trovare quello specifico modo di stare, di appartenere che dall’India e dall’America arriva a dare senso ai nostri gesti e alle nostre relazioni?

Siamo orfani di quella sfumatura leggera e distratta che ci farebbe capire chi siamo, tanto più in un tempo così faticosamente frastagliato che probabilmente non siamo più in grado di riconoscere non tanto per la sua complessità, ma perché siamo così confusi da avere solo sguardi opachi. Altro che gli orizzonti allargati tanto detestati da Karl Kraus, qui ormai fatichiamo a cogliere il senso dell’espressione di un viso.

Chi sa più oggi riconoscere un paio di bellissimi zigomi? Vaghiamo con gli occhi e con le orecchie tra idiomi che non sappiamo più decifrare. I nostri visi e i nostri corpi come segni irriconoscibili anche davanti allo specchio.

E diventa così, se non chiaro, quanto meno plausibile e verosimile l’insinuato furto di un profumo che sarebbe stato compiuto da parte di un noto e distinto uomo politico in un dutyfree all’aeroporto. Davvero vorremmo imputare a quell’uomo una qualche colpa morale? Lui che ancora ha la forza di non darsi pace, di muoversi e di viaggiare ed evidentemente di rischiare anche giocosamente quasi tutto della sua credibilità.

Davvero crediamo che quest’uomo sia poi così diverso da un qualunque adolescente angosciato dalla vita e divertito dal provare l’ebrezza di un furto in un qualche grande magazzino (ad oggi dicasi flagship store) del centro?

Quello che manca

Non può che divenire così plausibile e ovvia la considerazione che quello che ci manca è sono innanzitutto delle buone letture, prima di tutto la possibilità di comprenderle. Non basta infatti tornare ai classici, perché la nostra angosciata testa li renderebbe in ogni caso grevi o elitari a seconda della presunta realtà che stiamo in quel momento rifiutando pervicacemente di comprendere.

Detto altrimenti, non è interessante capire il perché del furto di un profumo, ma dove e cosa farne di quel profumo, perché è lì che sta il senso di un gesto e di un rischio sostanzialmente assoluto.

Non si tratta di assolvere, ma di accettare delle colpe minime per cogliere l’occasione di comprendere come dare forma a un nuovo movimento di senso. In poche parole, come si torna a viaggiare? Non certo inseguendo monumenti e musei o peggio ancora festival e concerti.

Forse si potrebbe partire attraversando furiosamente la Francia in macchina, correndo come matti, come seppe fare nel 1966 Jean-Louis Trintignant per raggiungere la sua amata Anouk Aimée in Un homme et une femme, per altro quattro anni dopo il terribile schianto subito nel Sorpasso. Una possibilità altra finalmente pienamente coraggiosa e a lieto fine per Roberto Mariani.

Mentre sulla battigia un pazzo pianta un ombrellone dimostrativo e un altro pazzo glielo getta via, senza che entrambi si rendano conto che sono gli unici, lungo chilometri di spiaggia, con qualcosa da dirsi, viene da credere che per trovare un senso l’unico movimento possibile sia proprio quello di perderlo del tutto, urlando di gioia come Roberto Mariani e sì, vada come vada.

O inseguendo l’amore, ora o mai più, come Jean-Luis Duroc nel film di Claude Lelouch. Certo il primo finisce morto mentre l’altro in fondo era pur sempre un pilota automobilistico per altro già vedovo e con un figlio a carico e quindi con non poche grane da potersi risolvere con un colpo di fulmine.

Ma non possiamo nemmeno più affidarci al poco, per non dire al nulla, di una letteratura sedentaria e consolatoria che sembra essere oggi la cosa migliore solo per prenderci un’ennesima pausa da una non vita. Una cosa che avrebbe così tanto imbarazzato Perec quanto Cortazar, che pur ricchi di calembour e giochi con cui navigare, avrebbero mollato la scrittura per rivolgersi al cameriere al grido di Garçon, Champagne! che tutto o buona parte quasi sempre risolve o quantomeno aiuta.

Tornare al piacere

Quindi l’azione? Forse sì. Quindi tornare a Hemingway? Forse no, anche se non fa mai male leggerlo e rileggerlo. Tornare invece a prendersi l’autorizzazione, tornare ad avere la pretesa di un fare che possa lui direttamente porci limiti e dinamiche dentro cui strutturarci e adeguarci.

Un fare che preceda fortemente le nostre paure e che venga prima dei diplomi, prima dei maestri ormai ridotti a professori da social e prima dei discorsi spesi in ore di messaggi e vocali che sono fatti solo dell’angoscia, e nulla sanno di barche a vela, di vento in poppa, di velocità e di brezza, di sole e di vita. Magari insieme.

Evitare così analisti e pedagogisti, ma anche scrittori e giornalisti. Tornare a leggere per la necessità di leggere fino al punto che torni il piacere. Anche partendo dalle istruzioni, dai bugiardini, dai fogli di montaggio dell’Ikea.

Tutte cose per altro mai lette per davvero con tutti i danni che ne conseguono. E poi certo un bel giorno tornare come per caso ad aprire un libro, tornare a viaggiare, ma per il momento meglio affidarsi a ingegneri e geometri, a chimici e chirurghi, ad architetti e ginecologi. Stare nella sostanza, comprenderla e curala con l’obiettivo di rimettere in piedi quei due grammi di felicità e di desiderio senza i quali nulla vale mai davvero la pena. 

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