- David Sedaris viaggia su un suo binario. A trent’anni dalla pubblicazione della sua prima raccolta di scritti ha rinunciato a capire e ha preferito smettere di ascoltare le opinioni altrui per perseguire le proprie
- Da poco è uscita la sua ultima raccolta, Cuore lieto il ciel lo aiuta (Mondadori, tradotto da Gianni Pannofino)
- Passando in mezzo all’elezione del peggior presidente della storia d’America, ai movimenti di rivendicazione, alla pandemia, alla cancel culture, ne esce senza un graffio e torna a rivolgersi alla sua famiglia: fonte inesauribile di aneddoti spinosi.
Viviamo in un tempo nel quale il comico, l’umorista, il satirico, è continuamente sottoposto a una pressione proveniente da due fronti: quella della censura e quella della responsabilità civile.
Per quanto riguarda la censura, non si tratta della vecchia e rassicurante censura istituzionale (quella che assegna i bollini e le fasce di età e che scandalizza oscurando l’inatteso), ma di un sentimento popolare e diffuso che da qualche anno sta costruendo una nuova morale attorno alla comicità, alla letteratura, al cinema e a qualsiasi altri forma di espressione, presente e passata. Contemporaneamente l’umorista è investito della responsabilità di parlare apertamente, di sfidare questa forma di morale. Da lui ci si aspetta che si prenda il rischio di dire l’indicibile, di rimanere aggiornato riguardo al lecito e di affrontarlo a viso aperto, che voglia o meno.
David Sedaris viaggia su un suo binario. A trent’anni dalla pubblicazione della sua prima raccolta di scritti, Barrel Fever (pubblicata in Italia nel 2003 assieme al suo secondo libro, Naked, in un volume intitolato Ciclopi, poi ribattezzato Diario di un fumatore) ha rinunciato a capire e ha preferito smettere di ascoltare le opinioni altrui per perseguire le proprie. Scrive di sé, come ha sempre fatto, con assoluta e imbarazzante onestà. Non legge le recensioni, non è sui social, non ascolta le critiche, ma ama le lodi. Nel suo mondo c’è spazio solo per il suo punto di vista e ogni suo racconto o saggio è filtrato da un senso praticamente assoluto dello humor.
Da poco è uscita la sua ultima raccolta, Cuore lieto il ciel lo aiuta (Mondadori, tradotto da Gianni Pannofino), e Sedaris, passando in mezzo all’elezione del peggior presidente della storia d’America, ai movimenti di rivendicazione, alla pandemia, alla cancel culture, ne esce senza un graffio e torna a rivolgersi alla sua famiglia: fonte inesauribile di aneddoti spinosi. Torna nel suo passato e rimette in prospettiva un padre distante e per niente disponibile. Torna, insomma, a dire di sé, mentre tutti si affannano a parlare d’altro.
Ti senti obbligato ad avere un’opinione?
No, non direi. Ho le stesse opinioni che avevo prima che fosse necessario avere un’opinione.
Forse però, ti senti di rappresentare qualcosa?
No, nemmeno. So che c’è la tendenza a prendersi una fetta di una delle varie cause importanti delle quali si parla ultimamente. Ma se scrivessi in un mio libro, ad esempio, “Black Lives Matter” mi sentirei fuori posto. Sarebbe un’appropriazione e non sentirei di stare facendo niente per aiutare la causa, ma solo di stare appropriandomi di uno slogan.
Ma c’è qualcuna di queste cause alla quale ti senti particolarmente legato?
Sì, certo. Ovviamente. Ci sono alcune cose che mi fanno proprio arrabbiare e avverto l’urgenza immediata di fare qualcosa.
Per esempio?
Ho letto che gli stati repubblicani stanno tentando di limitare l’affluenza alle urne tra gli studenti dei college, perché hanno la tendenza a votare democratico. Ecco, questo mi fa bollire il sangue e allora ne parlo pubblicamente, ne scrivo e mi incazzo.
Fa parte del tuo rapporto con i lettori?
Fa parte della mia sincerità verso di loro. In trent’anni dall’uscita del mio primo libro ho costruito un rapporto molto diretto con chi mi legge e la gente si sente libera di scrivermi, di avvicinarmi ai reading e alle presentazioni e di dirmi cosa pensa. Dopo gli incontri firmo copie per qualcosa come tre ore e per me è un grande piacere perché mi mette in contatto con persone che altri scrittori non saprebbero chi sono.
Li conosci?
Abbastanza. Ma a volte rimango stupito. Mi trovo di fronte qualcuno e mi viene da chiedere: «E tu cosa ci fai qui?», donne sull’ottantina che mi raccontano di ascoltare i miei audiolibri quando tornano da messa. E allora penso a tutte le volgarità che dico e che scrivo. Mi viene da metterle in guardia: avvertirle che presto sarò sul palco e parlerò di argomenti scabrosi, usando un linguaggio inappropriato. «Tornate a casa!», mi viene da dirle. Ma magari mi sbaglio, magari a loro piace. Magari si può essere una cara nonna cristiana e ridere quando si sente la parola “passera”.
È mai capitato che qualcuno ti sgridasse?
Sì, certo. C’è stato chi si è alzato e se ne è andato nel bel mezzo del reading per tornare alla fine e farmelo notare. Se ricevo una lettera di qualcuno che mi dice di essere deluso da me ci rimango male, ma è quello che sono: mi piacciono le battute sporche. Una volta ero in Australia e ho scoperto che era in commercio un sapone prodotto con la muffa estratta dalla vagina di una donna: una cosa disgustosa in generale, ma ributtante per un gay. Ne ho dovuto parlare in pubblico. E ho dovuto comprarne diversi esemplari. Sono fatto così, non posso piacere a tutti.
Ti è mai venuta la tentazione di provarci?
A piacere a tutti?
Sì…
Una delle ragioni per le quali ho smesso di leggere le recensioni ai miei libri è che perdevo un sacco di tempo a chiedermi come aggiustare gli aspetti che non erano piaciuti a chi mi criticava. Ho preferito continuare a fare quello che per me era divertente. Quindi sì, vorrei piacere a più persone possibile, ma provarci è uno spreco di giornate e di energie.
Soprattutto di questi tempi, in cui è più facile offendere che divertire…
La gente si offende per cose stupide e imprevedibili. Capita spesso che qualcuno mi faccia notare che ho detto qualcosa di inopportuno, senza che nemmeno me ne rendessi conto. Il confine dell’opportuno varia così rapidamente che è impossibile rimanere aggiornati su quello che si può dire, sui termini che si possono utilizzare. Oltretutto, cambiano i termini ma non la sostanza: dire che una persona è “senzatetto” o dire che “non ha fissa dimora” non gli dà un posto dove vivere.
Provi a tenerti aggiornato?
Non più, vado per la mia strada. Sono troppo vecchio per certe cose.
Sorprendentemente i più giovani sono anche i più conservatori. Che rapporto hai con le nuove generazioni?
Non credo siano conservatori, piuttosto draconiani. Sono anche coloro che avvertono il conflitto in maniera più vivida, più presente. Sono vicini al fronte, in un certo senso. Probabilmente è per questo che sono più sensibili e hanno la tendenza a scattare immediatamente appena qualcosa esce dai confini che riconoscono come zone di sicurezza.
Di che conflitto parli?
Quello generazionale, soprattutto. Ma anche quello razziale. Spesso mi capita di venire ripreso dai giovani per aver utilizzato la parola “nero” in qualcosa che ho scritto: dicono che si tratta di una connotazione superflua. E qualche volta lo è, sono d’accordo. Ma qualche volta, invece, serve semplicemente a informare il lettore, a dare il quadro completo di una situazione nella quale mi sono trovato. Solo che, di fronte al campanello d’allarme, al termine problematico, molti dei miei lettori più giovani si immobilizza come un cervo di notte davanti ai fanali di un tir.
Pensi che l’umorismo sia qualcosa che si debba adattare ai tempi o che li trascenda?
Quando mi sono trasferito a New York, nei primi anni Novanta, non conoscevo nessuno. Mi sono iscritto a un corso di scrittura alla YMCA: si chiamava “Scrivere divertente”. Lo teneva una signora britannica, che in effetti aveva un ottimo senso dell’umorismo. Ci chiese: «Qual è la prima regola della scrittura umoristica?». Io risposi: «Mai prendere in giro qualcuno che sia più debole di te».
È una buona regola…
Lo pensavo. Ma l’insegnante mi ha guardato incredula: «Chi te lo ha detto?», ha chiesto. «No, no, no. L’unica regola della scrittura umoristica è cercare di essere il più possibile di cattivo gusto!». È rimasto il miglior consiglio che io abbia mai ricevuto.
Però la sensibilità cambia…
È vero, ma non è qualcosa che si possa controllare o adattare, e nemmeno prevedere in anticipo. Qualche tempo fa ho riguardato Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks per forse la millesima volta. L’ho trovato invecchiato malissimo, all’improvviso. Mentre Frankenstein Junior ha tenuto benissimo. Chissà cosa è cambiato in me, ma certo non poteva pensarci Brooks nel 1975.
Come decidi su cosa scherzare?
Dunque, sono appena tornato da un viaggio in India e sto lavorando a un saggio a riguardo. Le cose che più mi sono rimaste impresse sono terribili: i mendicanti, la sporcizia, il degrado. Ho visto un mendicante senza naso. E non ho alcuna intenzione di scherzarci sopra, credimi. E voglio comunque che da quello che scriverò scaturiscano una o due risate.
E come farai?
Riporterò tutto su di me e traccerò un paragone così assurdo da non essere fraintendibile. Una delle cose che abbiamo fatto in India è partecipare a un tour delle location di The Millionaire. Abbiamo visitato degli slum come se si trattasse di un’attrazione per turisti a Hollywood. Chiaramente non posso fare umorismo sugli slum, ma posso sottolineare l’assurdità della situazione e poi paragonarla, per esempio, alla casa in cui sono cresciuto. Tornare a quando ero bambino. E probabilmente avrò le mie risate.
È rischioso…
È sempre rischioso. Vedremo come andrà. È una questione di equilibrio, di distanza. Scriverò anche dei quartieri a luci rosse: dove le bambine di dodici anni, rapite dai loro villaggi, sono costrette a prostituirsi. Ovviamente non c’è niente da ridere. La domanda è: quanti paragrafi devo mettere tra questo argomento e la prima battuta perché non sia sconveniente? E quanti dedicheranno la giusta attenzione alla questione invece di criticarmi per aver usato “prostituta” invece di “professionista del sesso”?
Sai che è esattamente quello che succederà, vero?
Ovviamente. Oltretutto “professionista del sesso” per una dodicenne a me sembra un insulto molto peggiore di “prostituta”.
Hai mai incontrato qualcosa di cui avresti voluto scrivere ma non te la sei sentita di accostare all’umorismo?
Mi è capitato di pensare che fosse troppo presto per un determinato argomento. Non credo di aver mai escluso completamente qualcosa, sono piuttosto avventuroso in quello che mi incuriosisce e il resto non lo prendo nemmeno in considerazione. Ovviamente ci sono argomenti più difficili di altri: la questione etnica, per esempio.
“Black Lives Matter”?
Già. Ho sempre voluto scrivere delle proteste, ma sono certo che mi criticherebbero.
Ci trovi qualcosa di umoristico?
Sì, sì. Non nelle proteste in sé, né nel messaggio, che sostengo assolutamente. Trovo molto divertente il fatto che ci siano tantissimi bianchi così investiti dalla causa da aver praticamente preso il posto dei neri. Durante le manifestazioni si facevano i selfie di fronte agli striscioni, si mostravano in prima fila con le espressioni da invasati, piangevano… È qualcosa che rasenta l’appropriazione culturale.
È anche un po’ triste…
Molto triste, sì. A volte ci sono cose divertenti perché estremamente tristi, calate in un contesto assurdo.
Pensi che scrivere di ciò che ritieni importante possa contribuire a risolverlo?
Penso che aiuti me a comprendere meglio quello che sto osservando. Non penso sia una vera soluzione e sono convinto che non sia nemmeno particolarmente terapeutico. È soddisfacente, ecco.
Aiuta a mettere le cose in prospettiva?
Aiuta a mettere in prospettiva me stesso, soprattutto. Di recente ho scritto di una relazione finita nel 1990. Non lo avevo mai fatto prima perché il mio ragazzo di allora l’avrebbe presa male. È stato come accorgermi per la prima volta del mio ruolo. Mi sono reso conto che lui era stato una pessima persona, ma che anche io avevo avuto le mie colpe. Trentatré anni dopo i fatti, mi sono imbarazzato per quello che ero. Ai fini della storia non è servito a molto, ma per me è stata una chiusura di conti.
In quello che scrivi c’è tanto di privato: ti sei mai messo nei guai con le persone alle quali vuoi bene?
Chi mi è vicino sa benissimo cosa faccio e ne parlo sempre molto apertamente. Dico sempre alle persone quando ho intenzione di scrivere di loro e chiedo loro di leggere quello che ho scritto prima di consegnarlo. Di recente mio fratello è diventato una specie di cospirazionista: mi fornisce così tanto materiale narrativo che potrei andare in pensione; però non ne scrivo, perché so che lo metterebbe in imbarazzo. Più che mettere me nei guai, ci metterei lui.
In Cuor contento il ciel lo aiuta hai scritto di tuo padre, e non ne esce bene. Perché adesso?
Non ne esce bene perché è stato, in tutta sostanza, un pezzo di merda. Non ho addolcito la pillola. Ma quando è morto, o meglio, quando ho capito che sarebbe morto presto è come se mi trovassi di fronte a una persona diversa da quella che avevo conosciuto crescendo. Conosco tante persone che hanno avuto un pessimo rapporto con i loro genitori, al punto da non riuscire a piangere quando sono morti. È stato così anche per me. Sapevo che sarebbe stato un argomento condiviso e che a qualcuno sarebbe servito. A me, se non altro.
Pensi che si sarebbe risentito leggendoti?
In trent’anni non ha mai letto una riga di quello che ho scritto. Non penso che avrebbe cominciato ora.
Magari si è risentito qualcun altro al posto suo…
Una volta a un firmacopie una signora si è fatta largo tra la folla e, puntandomi il dito contro, mi ha sgridato: «Non è così che si parla di un padre!». «Lo conosceva?», le ho chiesto. «Perché se lo avesse conosciuto saprebbe che sono stato magnanimo». Penso che sia il terrore di ogni genitore: che i propri figli parlino male di loro dopo la morte. Ma una soluzione c’è: basta cercare di essere genitori migliori.
C’è qualcosa di cui ti sei pentito di aver scritto?
Pentito, no. Mai. Ci sono molte cose delle quali non pensavo che avrei scritto prima di farlo. Una volta un mio amico a un corso di scrittura ha assegnato agli studenti il compito di scrivere della cosa più imbarazzante che avessero fatto. Io non lo avevo mai fatto, così ci ho pensato su. Ne è uscito il racconto in cui a 14 anni taglio il fondo delle mutande e osservo mio padre che dorme. Una cosa terribile. L’ho reso meno greve aggiungendo il particolare delle mie sorelle che, il giorno dopo, fanno merenda sul tavolino dove è stato il mio sedere nudo. Quando a un reading ho sentito il pubblico ridere, mi sono reso conto di aver appena confessato pubblicamente qualcosa di estremamente imbarazzante. È stato costruttivo.
Liberatorio?
In un certo senso. Non so come andrebbe con un segreto più torbido. Non ho mai stuprato un bambino. In quel caso forse lo terrei per me.
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