- Diciamocelo, se un appassionato di Prezzolini e di storia contemporanea, può reclamare Dante Alighieri, nell’anno del Signore 2023, come «profondamente di destra» (e fare, infine, una discreta figura), la colpa è semmai di noialtri esperti, esegeti, pedagoghi e intellettuali.
- Siamo noi da biasimare se ci limitiamo a controbattere che la destra nel Medioevo non esisteva, fingendo di non capire cosa intendesse il gazzettista assurto alla guida del nostro ministero di riferimento.
- Il punto è che Dante, ovviamente, non era fascio. E tuttavia il modo in cui ne parliamo in Italia, in cui lo celebriamo e lo raccontiamo, in cui lo insegniamo, dalle medie all’università, un po’ lo è.
«Gira voce che sei fascio», sussurra un beffardo Pietro Alighieri adolescente, in farsetto da paggio, al suo affranto babbo in esilio, sulle gentili rocce della pineta Classense. Questo meme, che con brillante economia risemantizza uno splendido dipinto ottocentesco di Annibale Gatti, mi pare l’unica risposta intelligente alle parole di Gennaro Sangiuliano, ministro della cultura del corrente governo Meloni - ha detto, per chi non lo sapesse, di considerare Dante «il fondatore del pensiero conservatore italiano».
Il resto del dibattito generato da tale sentenza, peraltro banalissima e vecchia come il cucco, mi è parso un tragico abisso di polverosa noia: un girotondo buonsensaio da collegio docenti del liceo dabbene. Diciamocelo, se un (semi)colto giurisperito schieratello, appassionato di Prezzolini e di storia contemporanea, può reclamare Dante Alighieri, nell’anno del Signore 2023, come «profondamente di destra» (e fare, infine, una discreta figura), la colpa è semmai di noialtri esperti, esegeti, pedagoghi e intellettuali. Siamo noi da biasimare se ci limitiamo a controbattere che la destra nel Medioevo non esisteva, fingendo di non capire cosa intendesse il gazzettista assurto alla guida del nostro ministero di riferimento, o se ci sdilinquiamo in un languido cerchiobottismo che vorrebbe la cultura estranea alla politica e al presente.
Dante, ovviamente, non era fascio. E tuttavia il modo in cui ne parliamo in Italia, in cui lo celebriamo e lo raccontiamo, in cui lo insegniamo, dalle medie all’università, un po’ lo è. Mi sono laureato nel 2011, dunque nel pieno delle celebrazioni per i 150 dell’unità d’Italia. Persino i miei professori più di sinistra, quelli che avevano fatto il ’68, erano presi da un impeto che credevo risorgimentale e che ormai, devo dire, mi pare invece fascistoide: dalla fantasia di poter proiettare nel passato la profetica continuità di padri di una teleologica patria destinata inevitabilmente a manifestarsi (pur tarda, monarchica, senza Venezie e Roma) nel 1861.
Dante, chiaramente, fu un protagonista di quell’anno tricolore: il padre dei padri, genealogicamente connesso al nostro diritto di dirci italiani. Forse un buon contravveleno per l’intruglio di capra e cavoli offerto in replica al ministro di destra sarebbe quello di cominciare a dire che Dante non è un poeta italiano. Che la Divina commedia, quest’enciclopedica storia personale di cui non abbiamo neanche un verso scritto dall’autore di suo pugno e del cui testo esatto non possiamo essere del tutto sicuri, è talmente spuria, impervia, piena di parole inventate e parolacce, che per cristallizzare l’italiano nel Rinascimento si sono preferiti i modelli di Petrarca e di Boccaccio. Che contiene versi in lingue straniere, addirittura in lingue sataniche, e che chi l’ha scritta si sentiva dolorosamente straniero nelle odierne regioni italiche in cui l’avevano esiliato.
Una scelta a posteriori
Dante non è nostro padre, non ha generato né l’italiano né l’italianità: è l’Italia moderna e contemporanea ad averlo scelto come genitore: siamo noi a decidere, con più o meno coscienza, di nutrire il suo mito genetico. E persino questo legame esonda ormai ben oltre i confini della nazione su cui lui avrebbe semmai fantasticato come provincia di un impero che oggi diremmo straniero: molti tra i più fini critici viventi della Commedia non sono italiani, né lo erano Borges, Mandelstam, Lao She, Singleton, Hollander. Se anche noialtri italiani leggessimo Dante come poeta straniero, estraneo, la dantistica italofona ne gioverebbe: si eviterebbe la faciloneria che già Gianfranco Contini, in un mirabile saggio dedicato agli insegnanti delle scuole superiori, cercava di sventare mostrando i rischi dell’apparente accessibilità dell’aliena lingua dantesca.
Forse si leggerebbe di più Dante, invece di sminuzzarlo nelle nefaste “infarinature” da scuola dell’obbligo attraverso cui lo sorbiamo tipo vangelo domenicale, sviluppando una familiarità ingannevole basata sulle stesse interpretazioni ottocentesche, idealiste, e infine fasciste da cui Sangiuliano, rimasticando una visione gentiliana della storia della letteratura inquietantemente attuale oltre che attualista, ha tratto la sua legittima appropriazione indebita.
Non è Dante che è reazionario: è la cultura che lo veicola a temere il progresso, rimanendo ingabbiata nel mito del liceo classico, della lingua più bella del mondo, delle tre corone, del programma ministeriale, del sommo poeta nazionale profeta padre padrone fondatore genio.
Chi vuole combattere la cultura di destra deve innanzitutto ammettere che essa esiste. Deve dunque superare il tragico equivoco, molto italiano, per cui la cultura (in sé, in quanto buona e proficua, elevante e libera) sarebbe automaticamente di sinistra, e volta a resistere stoicamente contro un vuoto, un’assenza. Una poesia non è intrinsecamente più di sinistra di un programma televisivo, le Feltrinelli e le Fnac traboccano di prodotti culturali conservatori e reazionari, iscriversi a lettere classiche non è necessariamente più radicale che studiare economia.
Bisogna poi ammettere che proprio nei percepiti bastioni del progresso si annidano i più immarcescibili germi della conservazione. L’università, per dire, è strutturalmente e intenzionalmente uno spazio conservatore, per quanto attraversato spesso da persone progressiste. Se pare opportuno dire che i ragazzini col cellulare a scuola debbono essere puniti severamente, o banalmente che sumeri e babilonesi vanno studiati nell’antichità mentre maya e aztechi dopo Colombo, è perché la pubblica istruzione affonda le sue radici anche nella cultura di destra, e addirittura negli ideali del regime fascista che la nostra repubblica non ha mai del tutto smantellato.
Nemmeno Dante, a dirla tutta, è progressista, come hanno tuonato i miei colleghi ricorrendo all’orrida formula «né di destra né di sinistra». Ma vorrei dire che invece è di sinistra, paradossalmente, qualunque esperto ed aggiornato tentativo di indagare con onestà proprio la tradizione che la destra sostiene di voler conservare, senza ammettere di inventarla invece di sana pianta a sua immagine e convenienza.
Il realismo dantesco
La Commedia dantesca è tanto avvincente perché non racconta di una visione, di un magico sabba su cui sospendere l’incredulità o di un sogno allegorico, ma di un viaggio assurdamente concreto. Da Boccaccio a Galileo, da Erich Auerbach a Maria Corti, le più grandi penne esegetiche di tutti i tempi si sono accanite a farci capire l’incongruo realismo di Dante: uno che sa che sappiamo (che sa che sappiamo, eccetera) che non è davvero salito in groppa, nella primavera dell’anno 1300, a un mostro ircocervo di nome Gerione per planare lungo un titanico burrone prossimo al centro della Terra, e che d’altronde non può nella sua vita aver volato su alcuna macchina o creatura alata. E che tuttavia ci tiene a descrivere il vuoto allo stomaco, il senso di vertigine, l’attrito aereo di quell’esperienza che sa che sappiamo (che sa che sappiamo, eccetera) non aver mai avuto luogo.
Un tale bisogno di esperienze reali, addirittura corporee nel più inesperibile dei mondi possibili, quello di là dalla vita, si spiega in molti modi, tutti intellettualmente entusiasmanti, ma il più rilevante, in questo momento, è piuttosto semplice. Dante ci mostra la fatica materiale, fisica addirittura, di raggiungere in vita, prima che Dio, il passato: quest’immane landa popolata dai morti di ogni tempo. Bisogna viaggiare, come arduamente e con muscolare sacrificio viaggiavano i pellegrini veri sulla Via Francigena, per visitare tempi lontani, per conoscere le opinioni dei morti e parlare con loro.
Ecco qui, mi pare, il fondamentale tradimento della Commedia e di tutta la filologia, dell’arte di leggere capendo e di farsi prossimi letterariamente a ciò che ci è remoto nel tempo: dire di Dante che è vivo. Che è nostro contemporaneo, che è tra noi, oggi—o il 25 marzo, data in cui si celebra il dantedì. Fare di Dante un morto che parla: uno zombie. Si dice, ad esempio, che bisogna portare Dante ai giovani. A chi si adopera, nei manuali e nei programmi culturali, per simili idee negromantiche di falso egualitarismo e pseudo-divulgazione bisognerebbe rispondere: no, bisogna portare, al contrario, i giovani a Dante. O meglio, equipaggiarli perché possano affrontare un tale accidentato viaggio senza sentirsi arrivati prima di partire. Impedirgli di credersi eredi naturali di questo antico sconosciuto. E non nascondergli che se costui ci pare tanto importante e “nostro” è perché dobbiamo anche noi liberarci dalla nostra un po’ fascia fascinazione cattolica per l’identità, per l’autorità. Per i papà.
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