Di cosa narriamo quando narriamo il contemporaneo? «La contemporaneità non esiste», scrive Giuseppe Pontiggia (Premio Strega 1989 e Campiello 2001) nella premessa al suo saggio I contemporanei del futuro (Mondadori, 1998). In effetti, provocazioni a parte, che significa narrare la contemporaneità e perché abbiamo la sensazione che in Italia si faccia così poco? Di tanto in tanto, si riaccende il dibattito.

Nel saggio Perché scrivo Joan Didion sostiene che scrivere sia un modo aggressivo per imporre il proprio sguardo sul mondo. «Scrivo solo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa». Se scrivere è una questione di osservazione di ciò che ci circonda, allora scrivere del presente significa aprire gli occhi sull’entropia di un mondo indecifrabile. Per parafrasare Franco Bifo Berardi, anche la letteratura è alle prese con la fine del futuro e quindi con un eterno presente.

I tratti distintivi

Forse è da questi presupposti che viene più facile mettere a fuoco i connotati del romanzo contemporaneo. Le voci narranti sono poco affidabili, i protagonisti si reggono su equilibri labili, non hanno opinioni assertive, tra di loro aleggia una certa sfiducia, una paralisi. Tuttavia, scrivere del presente richiede un investimento in speranza, mentre si naviga a vista. La necessità di trovare un posto nel mondo, le relazioni sbilenche, un generico senso di estraniazione, non è questo che muove i personaggi e le trame dei romanzi di Sally Rooney, Noise Dolan, Catherine Lacey o Dolly Alderton, scrittrici millennial e contemporanee per eccellenza? Sono caratteristiche che ritroviamo anche negli ultimi romanzi di Veronica Raimo, Vincenzo Latronico o Olga Campofreda.

A partire dagli anni Settanta, ogni dieci anni, la casa editrice inglese Bloomsbury pubblica un manuale dedicato alla narrativa contemporanea britannica. Nella prefazione, gli autori che hanno curato il testo dell’ultima edizione, sostengono che i romanzi di fiction dello scorso decennio siano stati fortemente influenzati da uno scenario di crisi diffuso e capillare come mai prima d’allora. Dalla crisi economica del 2008, passando per la crisi dell’informazione – abbiamo imparato a convivere con i concetti di post-verità e fake news solo da qualche anno – e quindi crisi della democrazia, per concludere, infine, con la crisi sanitaria dovuta al Covid19.

Lo stesso manuale fa notare che in tutto il catalogo della British Library – che consta decine di milioni di volumi – la metà dei libri che contengono nel titolo la parola “precario” sono editi tra il 2011 e il 2020, gli stessi anni in cui oltremanica si è formata una scena di scrittori working class rilevante (Kerry Hudson, Natasha Carthew, Anthony Cartwright, per citarne alcuni). Tra le macerie della Grande Recessione anche l’Italia ha prodotto una narrazione del precariato, in molti hanno raccolto l’eredità de Il mondo deve sapere di Michela Murgia, attraverso romanzi di critica sociale come quelli di Giorgio Falco, Francesco Targhetta, Vitaliano Trevisan.

Lo stato di crisi

Negli anni Venti questo stato di crisi simultanee sembra essersi stabilizzato e persino acuito. Su scala globale, con la crisi climatica e quella geopolitica, fino a diffondersi localmente con la crisi abitativa. Narrare il presente, oggi, significa senza dubbio confrontarsi con un diffuso stato di emergenza, di ansia e instabilità, economica o emotiva che sia. Questo racconto passa ancora, inevitabilmente, per il rapporto con il lavoro, soprattutto quello digitale. Dopo La valle oscura (Adelphi) di Anna Wiener e Questo post è stato rimosso (Mondadori) di Hanna Bervoets, usciti negli ultimi anni, è ancora la Silicon Valley al centro dell’alienazione e del racconto di un sogno collettivo infranto, quello delle start up, più attuale che mai. È ciò che racconta Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter, uscito a settembre per La nuova frontiera. Un romanzo che non risparmia il lettore da un senso di profonda angoscia perché non è necessario avere un impiego a San Francisco per rispecchiarsi nella frustrazione, nel sovraccarico di lavoro, nelle dinamiche di potere che annientano ogni dignità umana, come racconta bene Etter.

Tuttavia ho l’impressione che si tenda a sovrapporre il concetto di narrazione del presente con quella di narrazione del mondo digitale. La nostra dipendenza assoluta dal mondo culturale anglosassone ci fa sentire alla periferia del dibattito, ma anche in Italia abbiamo avuto esempi ben riusciti di fiction in cui il lavoro digitale, i social o Internet giocano con la trama e hanno un ruolo rilevante per i protagonisti: Irene Graziosi, Eleonora C. Caruso, Gabriella Dal Lago.

Sono delle eccezioni, che sfidano molti pregiudizi causati anche dall’età media molto (troppo) alta, di chi compra libri con frequenza e legge tanto in Italia. Inoltre, è complesso gestire senza affettazione l’ingerenza di Internet all’interno di una storia. Può essere odioso, frustrante e si corre il rischio di essere didascalici e di risultare incredibilmente noiosi per chi legge. Perché dovremmo desiderare di ritrovare su carta stampata qualcosa che abbiamo a disposizione ogni giorno su uno schermo colorato, in alta definizione e più aggiornato? Perché è un’occasione narrativa enorme. Nel 2021 la poetessa Patricia Lockwood – che a inizio anni dieci ha avuto un grande seguito su Twitter andando virale con degli epigrammi ironici basati sul sexting – si è cimentata per la prima volta con la forma romanzo in Nessuno ne parla (Mondadori), finendo in shorlist per il Booker Prize.

Quale prosa per la rete

Quello di Lockwood è un testo frammentato come la nostra attenzione e schizofrenico come una sessione qualsiasi sui social – nel romanzo internet viene chiamato “il portale” – nel quale la protagonista (una twtistar che ricorda l’autrice) rimbalza tra digressioni sull’aborto, flash amari sull’America della presidenza Trump e thread assurdi che risucchiano la sua mente e la nostra. Internet aleggia con discrezione ma con estrema grazia anche in Ricompense, la raccolta di racconti di Jem Calder (Einaudi). Anche in questo caso caratterizzata da una prosa spezzettata – un espediente che sembra funzionare bene per tenere il ritmo del flusso di informazioni captate online. I protagonisti sono legati da relazioni fragili, osserviamo la loro solitudine anche attraverso ciò che accade sui loro schermi, tra richieste di messaggi su messenger e lavori deludenti, raffiche di notifiche e emozioni smorzate, finiranno per perdere la loro identità e diventare due utenti generici di un’app di incontri.

«Se tu dici “Internet”, ti dà un brivido di novità» dice Daniele Del Giudice in Del narrare «io non ho nessun desiderio del nuovo in sé», aggiunge. L’interpretazione che do a questa frase è che non è sufficiente riportare sulla pagina un messaggio vocale, un meme, un’emoji o mezz’ora di doomscrolling tra reel demenziali per essere contemporanei. Missitalia (La nave di Teseo) di Claudia Durastanti è un romanzo contemporaneo per come manipola la lingua, nonostante sia ambientato per due terzi in periodi storici durante i quali internet nemmeno esisteva; Tasmania (Einaudi) di Paolo Giordano è uno dei romanzi recenti che meglio racconta l’attualità culturale e storica in cui viviamo, senza che i social o gli smartphone abbiano un ruolo rilevante nella trama. Accade lo stesso ne Il male che non c’è di Giulia Caminito, uscito da poco per Bompiani, qui Internet non è altro che un accessorio che fa parte della vita quotidiana dei protagonisti, che pure sono fortemente immersi tra le sbavature del presente.

Magari Pontiggia ha ragione, la contemporaneità non esiste, ma di sicuro c’è chi la sta raccontando e lo sta facendo bene. Ora è il mercato editoriale che deve trovare il coraggio di dargli il dovuto spazio.

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