C’è un atlante di riferimenti visivi nelle opere di Carlo Emilio Gadda. Ognuno di essi serve a spogliare la realtà da ogni traccia di mistificazione. Con uno sguardo che sembra un bisturi lo scrittore estrae immagini che superano apparenze ingannevoli fino ad arrivare al vero
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Ricordo bene quando Gadda si è affacciato sulla mia strada di lettrice per la prima volta. Avevo sedici anni, e in un pomeriggio estivo glassato di noia pescai a caso il Pasticciaccio nell’anarchica, un po’ picaresca biblioteca casalinga. L’edizione non era di quelle che, in tralice, si ammirano nelle librerie antiquarie. Pagine spesse, distanti anni-luce dalle millefoglie dei Meridiani, come tipico della collana — Grandi Capolavori? quale che fosse, il titolo riusciva al contempo buffo e minaccioso — in omaggio col quotidiano progressista che erano soliti comprare i miei, in quei primi duemila carichi di disillusione futura.
Il vestito del libro non lo aiutava di certo a spiccare tra gli onesti pervinca verde acqua giallone dei compagni di collana allineati sullo scaffale: al Pasticciaccio erano toccati un grigio stinto e una copertina non proprio invitante, puro manierismo à la Magritte.
Nel viale d’una grande città costiera (potremmo essere a Napoli come a Lisbona) uomini d’ignota provenienza in giacca e cravatta passeggiano inscritti in una diagonale incisa d’ombre; non riusciamo a decifrarne i volti perché di spalle o di sbieco, coperti da cappelli a tesa larga, da noir anni Trenta. Un’ambientazione da romanzo nebbioso di Se una notte d’inverno un viaggiatore, anziché in stile Carlo Emilio.
Anche se, a ben vedere, il mondo mentale di Gadda mi era del tutto estraneo: più che un volto una serie di maschere, a partire dalla microscopica scheda del manuale di letteratura del liceo che — manco a dirlo — lo tacciava di eccessiva oscurità. Eppure iniziai, e non riuscii a staccarmi finché il lampo degli occhi neri della presunta colpevole non fulminò l’«uomo ubiquo ai casi», Ciccio Ingravallo: «A ripentirsi, quasi».
Non capii granché, eppure sentii l’abituale modo di pensare ai rapporti umani, alle parole e alle cose venir teso e lasciato andare come un elastico, come il tempo in cui ero immersa. Esperienze percettive familiari — l’odore di certe strade di Roma, la luce abbacinante delle gite ai Castelli, l’inflessione di parlate all’antica — avevano contribuito all’inabissamento; fuori dalla finestra le cicale avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma allora non avevo ancora letto la Cognizione.
Dopo quell’ubriacatura per lungo tempo non pensai più a quel brulichio di lingue, di sillabe, ai giri in motocicletta del commissario Pestalozzi né al corpo tozzo di Ingravallo (la cui parlata non mi risultò aliena: non era troppo distante dalla prima émigrée che avevo conosciuto, mia nonna). Altre strade, altri studi. Mai mi sarei immaginata che, non molti anni dopo, sarei finita dall’altro lato dell’oceano a lavorare a una tesi di dottorato che — per una serie di coincidenze inaspettate — verteva su Gadda e l’arte!
L’ultimo anno di PhD si poteva passare dovunque si volesse, grazie a una completion fellowship bandita da Harvard, la mia alma mater: scelsi di passare alcuni mesi al fondo Gadda del Gabinetto Vieusseux. Soggiornavo in un monolocale dai soffitti alti, nella via dove aveva a lungo abitato Ottone Rosai, uno degli artisti più amati dall’Ingegnere; la casa gaddiana di via Repetti era a pochi minuti di distanza, ma ci passavo raramente.
Erano sufficienti le occhiate severe che C.E.G. mi lanciava oltre il tavolone di noce dell’archivio (ora sostituito da una versione in vetro, hélas), attraverso le pennellate del bel ritratto di Adriana Pincherle. Quella sala studio con le effigi degli scrittori affastellate alla rinfusa alla parete aveva un che di seduta spiritica. E in effetti per mesi inseguii piste nascoste, setacciai archivi, parlai con filologi e storici dell’arte, mi scontrai con qualche bibliotecario: consegnai giusto in tempo per la scadenza, poi decisi di dimenticarmi dell’impresa per un po’. Bibliografia a parte, di quel lavoro questo libro ha tutto e niente: piuttosto, La lente di Gadda avrebbe potuto prendere senza difficoltà la forma di una mostra.
Del fenomeno recente degli “scrittori in mostra” condivide le sfide principali: da un lato, mettere ordine nel catalogo delle citazioni figurative di un autore isolando dei possibili percorsi; dall’altro, tentare di renderne visibile il modo di lavorare tracciandone un’ideale mappa della mente.
Il ruolo delle immagini
Impresa non semplice, a maggior ragione nel caso di Gadda: per molti versi, ci troviamo davanti a uno scrittore «al di fuori della sfera delle parentele, sia della paternità che della fratellanza», suggerisce Marco Antonio Bazzocchi: «Gadda era un uomo desideroso di mettersi ai margini del mondo, anzi di scomparire». Di questa volontà danno riscontro testimonianze d’autore che, come spesso nel Novecento, anziché svelare il proprio modus operandi lo celano; ne è prova il tono autodenigratorio della confessione rilasciata a Contini: «Il mio lavoro è logicamente, esteticamente, e narrativamente “sbagliato”, fondandosi sulla stolta speranza di “narrare intorbidando le acque” per dépister il lettore dalla traccia della sua reale esistenza».
Nella creazione del mondo mentale di Gadda il visivo — con annessi dépistages — è tutt’altro che accessorio, come si è spesso teso a pensare, relegando a latere gli studi sul tema, o al più separando le tessere figurative dall’intero.
Non si tratta solo di quantità e qualità dei riferimenti. Non è necessario essere gaddisti per notare come personaggi di ogni genere – ricchi o poveri, uomini o donne, dotti o everymen – spesso nei suoi romanzi o racconti s’interrogano su quale segreto nasconda un dipinto, una scultura, un frammento d’architettura, una fotografia o una riproduzione di poco pregio che sembrerebbero essere messi lì per caso, e invece non lo sono.
Piuttosto, le numerose presenze di opere visive che costellano romanzi e racconti sono strettamente connesse alla sua modalità di costruzione del reale. Robert Dombroski e Federico Bertoni hanno reso conto di come il suo approccio sia contiguo a quello di un chirurgo – Anastomòsi, una delle sue prose più sorprendenti, descrive con lucida esattezza un’operazione, facendo proprio il metodo del theatrum anatomicum – che è costretto a operare un taglio nel corpo del reale nell’intento di isolarne il male, estrarlo per poi rimettere in sesto il mondo: «Più che in chiunque altro, è evidente come il modello anatomico abbia plasmato, modellato sia lo sguardo sull’uomo, sia lo stile del discorso: lo sguardo penetra fino nelle “pieghe” più segrete, lo stile è tagliente. L’uno e l’altro sono dei bisturi».
Sguardo-lama
Letto in quest’ottica, l’atlante di riferimenti visivi che attraverseremo non sarà un orpello, ma un modo di spogliare la realtà di ogni traccia di mistificazione, risolvendo il dolore provato di fronte al caos del mondo in organizzazione del reale, in tensione conoscitiva, in esito espressivo. Lo sguardo-lama dello scrittore estrae dall’infinito catalogo del possibile un «complesso di immagini e figurazioni ossedenti» (secondo la definizione data nei capitoli del Pasticciaccio apparsi sulla rivista Letteratura) che di volta in volta, attraverso diversi percorsi e modalità, serviranno da filtri per andare al di là di ogni ingannevole apparenza ed arrivare al vero.
È un processo che coinvolge innanzitutto se stesso, per poi estendersi ai rapporti familiari, sino a investire il tessuto urbano, i paesaggi e il racconto della relazione tra io e collettività. Ogni tentativo di avvicinamento al reale implicherà un conflitto, un rapportarsi al problema del Male, identificato da Gadda con il narcisismo che impedisce di tendere al bene comune.
Lo sfilacciarsi dei rapporti positivi che determina l’oltraggio andrà ricondotto al fascismo e in particolare all’erotia narcissica connessa alla figura di Mussolini, ma la lettura del visibile come spazio di manifestazione della mistificazione, smascherabile attraverso un occhio clinico forte di ampie letture psicanalitiche, va al di là dello specifico momento storico.
È questa la scansione che abbiamo deciso di seguire nei capitoli dell’atlante, dedicati rispettivamente al pantheon figurativo dello scrittore, alle testimonianze visive genialmente scomposte e ricomposte nel pamphlet antimussoliniano Eros e Priapo sino alla struttura planimetrica delle città e alle loro rispettive luci e paesaggi. La mappa delle funzioni dell’ecfrasi, sinora ricondotte perlopiù al ruolo di specchio proiettivo – Giorgio Pinotti ha parlato, a ragione, di «ecfrasi narcissica» – andrà quindi ampliata.
Di volta in volta, le traduzioni d’immagini in Gadda sono funzionali non solo a velare traumi psichici o i perturbanti meccanismi del desiderio, ma a tradurre il genius loci, o a scandagliare il rapporto tra l’io e il mondo, tra il narratore e i personaggi. E se diversi sono i livelli di profondità delle descrizioni, non mancano esempi in cui, attraverso specifici casi di delega percettiva, Gadda metta in campo un’ecfrasi “agonale”, volta a sfidare i lettori a un’operazione di “immaginazione ermeneutica”, attraverso la ricostruzione dell’intero implicito nella costruzione romanzesca.
In quest’ottica, le immagini selezionate dalla lente di Gadda saranno tanto importanti quanto gli interlocutori e le possibilità di fruizione attraverso cui lo scrittore riesce ad avere accesso a determinate fonti visive. Quanto al canone, è evidente che l’Ingegnere è spinto a prediligere quegli artisti che, in modi e tempi diversi, hanno contribuito ad andare al di là di quello che Nabokov definiva «rozzo compromesso dei sensi», ampliando la nostra gamma percettiva (oltre all’ovvio Caravaggio e l’antipodico ma complementare Raffaello non mancano i riferimenti agli amatissimi Luini, Bassano, Bellotto, fondamentali nel rendere tangibile quella luce quotidiana di cui cercherà traccia anche nell’avvicinarsi ai contemporanei).
Nonostante mostri in più occasioni non soltanto di muoversi a proprio agio nello spazio figurativo, quasi mai queste letture seguiranno il filo della descrizione filologica o di servizio.
Se è ormai assodato il ruolo decisivo dell’incontro col più grande connoisseur dello scorso secolo, «il sommo Roberto Longhi» (definizione d’autore), è innegabile che nel caso di Gadda il gioco della riconfigurazione sia ancora più complesso. Ricordava Pasolini che le letture che Longhi dava erano sempre «oblique», con le testimonianze visive osservate «da punti di vista inusitati e difficili»: non c’è dubbio che anche trascrizioni visive di Gadda siano smaliziate e critiche, talvolta persino dolorose per chi scrive.
L’ironia bonaria nel descrivere gli umili o tratti di lirismo in alcuni squarci paesaggistici non mancano; quasi sempre, però, le traduzioni di immagini avvengono against the grain, a contropelo. Non si tratta quasi mai di errori o dimenticanze, come è stato suggerito, ma di consce riscritture del dato figurativo di partenza: ciò è evidente non solo nel caso di riferimenti all’antichità o alla pittura del Rinascimento, ma tanto più nella scomposizione delle testimonianze della cultura visiva (fotomontaggi, dipinti, vignette satiriche, filmati) associate al regime nel pamphlet antimussoliniano Eros e Priapo.
L’attenzione al dettaglio
A questa dimensione della riconfigurazione attraverso la parola contribuisce anche la pluralità di modi di avvicinamento alla opere, non più limitata alle ottocentesche riproduzioni in bianco e nero.
Mentre Berenson e Longhi discutevano animatamente su quale fosse il miglior tipo di riproduzione a supporto della pratica attribuzionistica Gadda – cresciuto in un’epoca in cui i Maestri del Colore erano ben al di là da venire – si era ingegnato come poteva, accumulando più esperienze percettive possibili. Almeno all’inizio, gli antichi maestri sono accostati perlopiù attraverso il filtro della tricromia e l’esplorazione persistente di cataloghi di stampe allora disponibili.
Ed è anche questa naturale predilezione per il fotografico che spinge Gadda a adottare un approccio atto a selezionare il dettaglio perturbante – che, come ha spiegato una volta per tutte Daniel Arasse, porta il riguardante a riflettere sul proprio spazio vitale – anziché l’intero, spingendo i lettori a osservare volti, paesaggi, persino architetture come fossero frammenti di corpi stesi sul lettino.
Non mancano però casi di visioni dirette e frequenti (gran parte delle testimonianze predilette sono tuttora conservate nei musei milanesi, da Brera alla Galleria di Arte Moderna al Poldi Pezzoli), senza dubbio privilegiate per quanto riguarda i contemporanei: è il caso dei «De Pisis, Rosai, Carrà, Morandi» (cui andranno aggiunti almeno Scipione, Tosi, Maccari, Sassu, Sironi, Martini e Scialoja) ammirati a vernissage, Biennali o attraverso incontri e visite private agli studi.
Aldilà della decifrazione dei percorsi delle singole intertestualità (“A quale opera o catena di opere allude? Da quale fonte l’ha tratta?”: filologia visiva), La lente di Gadda esplora la funzione che questi riferimenti iconografici assumono all’interno delle strutture narrative, tanto in relazione alla polifonia dei personaggi quanto all’assolo più o meno distanziante della voce narrante. Sarà evidente come le immagini a volte tradiscono, ma spesso prefigurano quello che sarà, facendo da perno agli sviluppi del racconto, anziché – come da cliché critici di lunga data – da innocui stacchi digressivi.
Di questa valenza conoscitiva del visivo in Gadda si sono resi conto, con largo anticipo rispetto alla critica letteraria, registi e attori, da Pietro Germi sino a (tra i molti altri) Luca Ronconi, Giuseppe Bertolucci e Fabrizio Gifuni.
A una prima analisi dei numerosi riferimenti visivi, La lente aggiunge una panoramica sull’ampio numero di adattamenti che hanno investito l’opera dello scrittore, incrociando una prospettiva interna all’opera e una esterna. Sono operazioni molto diverse, che traducono (è il caso di Germi) l’alto coefficiente di visività entro i limiti specifici del proprio linguaggio, pur non tralasciando di cogliere gli indizi disseminati nel Pasticciaccio: basti pensare alla Giuditta e Oloferne cui si allude nell’interrogatorio che conclude il romanzo, presente in una significativa scena del racconto filmico.
Oppure (in Ronconi) fanno propria la teatralità insita nell’impostazione della scene e nella costruzione stessa dei personaggi per lasciar spazio all’ibridazione tra linguaggi. La ricezione del lavoro di Gadda in ambito audiovisivo investe, gettando nuova luce, un’opera che – contro ogni pregiudizio – rivela un forte grado di adattabilità, rappresentando un’ulteriore opportunità di moltiplicazione dei piani di lettura.
Mi piace pensare che il lavoro non sia ancora del tutto finito, e che ognuno potrà integrarlo come preferisce: del resto, ogni capitolo non è che una delle possibili chiavi d’accesso a un’opera che, ogni volta, si rivela un “meraviglioso ordegno” pronto a colpire lettori d’ogni tempo… Quanto a Gadda reloaded, non resta che aspettarsi ulteriori colpi di scena.
da La lente di Gadda, Electa, Milano 2024, in libreria dal 17 settembre
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