Patricia Highsmith è tradottissima: la sua fama è stata declinata in tutte le lingue possibili. Eppure, quando mi è stato proposto di tradurla, sapevo che occorreva un’operazione nuova, poiché stavolta non si trattava di un romanzo o di una raccolta di racconti ma dei suoi (lunghissimi) diari, rinvenuti postumi dietro una pila di biancheria nel suo maniero svizzero, in cui ormai da un po’ di anni la vita raggiungeva Pat a malapena, sostituita dal tempo denso e autarchico della scrittura.

Dovevo rintracciare una voce diversa: quella del tra sé e sé, fatta di negoziazioni tra Patricia-romanziera, io narrante, e Patricia-persona, serbatoio emotivo. In termini psicoanalitici si potrebbe dire che dovevo esplorare il rapporto tra l’ego e i “non pensieri”, come li chiamava Bion: i sedimenti impensabili dell’inconscio, che però – se la diarista è una scrittrice, un’ottima scrittrice – diventano pensabili, e per noi leggibili.

Tra analisi e inconscio

In questo senso la scrittura diaristica, tarsformativa e insieme completamente autentica, si pone tra la scrittura automatica degli spiritisti e quella ragionata del memoir. La Patricia dei diari è la custode brillante di un luogo fosco e al contempo esuberante che è il suo spazio psichico, che attraverso la lente dell’analisi immediata viene tramutato in una narrazione.

La lingua in grado di veicolare questa esplorazione, che era anche un’autopsia (poiché il non pensiero è inerte, è immagine cadeverica) doveva restituire perfettamente lo smottamento continuo tra analisi distaccata e sprofondamento inconscio. In più, i diari di Patricia Highsmith sono stati scritti in più lingue, che frequentò per esigenze di vissuto (esule inarrestabile e cosmopolita, mise radici solo in tarda età): utilizzò i diversi idiomi – da un francese scolastico a un italiano minimo, passando per uno spagnolo basico – come codici segreti per proteggere le sue pagine dall’occhio indiscreto dell’amante di turno.

Il passaggio tra le lingue è contrassegnato da una legenda, nel testo, ma anche in traduzione doveva restituire il passaggio maldestro dalla marcia sicura della lingua madre ai saltelli goffi di una lingua appresa. Fortunatamente gran parte del diario è in inglese, ed è nel suo inglese sia chirurgico che sontuoso, sia crudo che metafisico (diverso da quello sempre algido della romanziera), che Patricia Highsmith ci dona i percorsi acuti e tortuosi della sua mente.

Senza spazio per l’amore

Riflessioni sulla vita e sulla scrittura, sull’amore e sull’impossibilità dell’amore. Questo contrasto – il desiderio di amare e la difficoltà di rendersi emotivamente disponibile – nasce dal rapporto conflittuale con la madre, che con lei alterna uno slancio protettivo a tratti soffocante con un’intolleranza che si concentra su un formalmente sul rifiuto della sessualità della figlia. La stessa Patricia alternerà momenti di orgoglio del proprio orientamento sessuale-sentimentale a momenti di rifiuto di sé e desiderio ardente di “normalità”, di una vita eterosessuale universalmente accettata, e infatti tenterà di innamorarsi dell’amico Mark e ricorrerà persino, ahimè, a una terapia di conversione.

«Io non volevo altro da lei se non il terreno per le mie avide radici», scriveva il 25 dicembre 1943, in un Natale cupo dominato da una delle sue ossessioni sentimentali, e la sua vita si legge tutta come un tentativo di trovare quel radicamento, che sia la sua attitudine inquieta e autodistruttiva che la sua passione solipsisitica per la scrittura rendevano difficoltoso.

Scriveva il 15 dicembre 1972, in versi: «Vivo nell’aria/E sul ghiaccio sottile./Niente di tangibile./Il ghiaccio sì,/Ma non a lungo./È tutto in testa./Così le mie ali/O la mia terra/Resisterà finché resisto./Nulla da dare/A nessuno./Non lo consigli». Così scarnamente, ed ellitticamente, riassume la sensazione di precarietà e solitudine portata dalla scrittura quando non è affiancata e sostenuta da un amore saldo.

«Nulla da dare a nessuno»: la mente concentrata unicamente sulla creazione letteraria non ha uno spazio reale per l’altro. Come il cuore di Sylvia Plath che batteva al suono di «Io, io, io», il cuore di Patricia ha il suono cupo e autarchico del subconscio, e infatti le relazioni che avrà per tutta la vita saranno volatili e distruttive. Il radicamento che sogna non è possibile perché la sua vita poggia su “ghiaccio sottile”, che la scrittura rende percorribile e l’amore tende a spaccare rovinosamente.

Scrivere e non vivere

Se nei suoi vent’anni nell’amata cercava frivolezza e intensità, slittando con cinismo da un corpo all’altro con la facilità in cui mollava un libro per leggerne il successivo, nei trenta Patricia si fa martire, oggettino splendente di donne sofisticate e crudeli. La famosa Carol dell’omonimo e amatissimo romanzo è un condensato della carrellata di donne algide e sposate che hanno segnato la sua età adulta, dalla Rosalind che attraversa la sua esistenza come un totem idolatrato alla Helen che la obbligava a dividere ogni pasto con il suo cane, fino alla Kathryn moglie del suo futuro editore inglese che la farà sentire per la prima volta, per un istante, radicata in qualcosa: non si tratta di un luogo geografico ma di un sentimento vero, saldo, che scombina per la prima volta la gerarchia vita-scrittura. «Ho vissuto troppo a lungo falsamente. Il denaro onesto che ho in tasca mi grida contro. E io cosa grido? Qual è il grido della mia anima? Kathryn», scrive il 7 aprile 1950.

Ed è proprio nella stesura di Carol, nel personaggio-patchwork della femme fatale raffinata e irraggiungibile, che si ha la prova finale di come per Pat «scrivere, naturalmente, sostituisce la vita che non riesco a vivere»: quando scoprirà che un amico conosce personalmente la donna che vide una sola volta, nel reparto di giocattoli di Bloomingdale, dove lavorava per permettersi la terapia di conversione, sceglierà di non conoscerla pur di preservare la sua versione letteraria, il personaggio che solo la sua assenza nella vita di Pat poteva rendere davvero reale.

Eloquente solitudine

«Lo so: non c'è conforto, né salvezza se non nell’immaginazione, nella creazione di un altro mondo. Questo mondo attuale per me è un inferno, è come una prigione, anche se al momento la casa è perfettamente pulita», scriverà anche, riflettendo ancora una volta sulle sue radici che non possono attecchire nella vita.

È proprio questo il “ghiaccio sottile” su cui muove i suoi passi stentati e potentissimi, la superficie traballante che è un luogo abissale e fragile della mente, che al mondo non è dato sfiorare. Il mondo: la socialità tanto agognata da Pat e allo stesso tempo costantemente rifiutata, perché diluisce il pensiero puro, quello della scrittura.

Scriveva Susan Sontag, anche lei nel suo diario, che l’eloquenza nasce dalla solitudine, e infatti Patricia scrive a un certo punto «se solo la gente mi lasciasse maturare. Come vino vecchio confiderebbero nel mio solitario stagionare. Invece intingono le dita aliene nel mio fondo. E io sono torbida di sedimento e andrei lasciata in pace».


Patricia Highsmith, Diari e taccuini 1941 – 1995 (La nave di Teseo 2022, a cura di Anna Von Planta, traduzione di Viola Di Grado, pp. 1104, euro 40) 

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