Le polemiche sul linguaggio inclusivo sono ormai all’ordine del giorno. Dato che in media il livello non è adeguato alla posta in gioco, vorrei inserire sulla scena qualche dato di esperienza in prima persona, per provare a uscire almeno un momento dalla logica dello scontro impersonale tra fazioni opposte. Lo faccio a partire da un fatterello social.

Nelle scorse settimane, dopo molteplici autocensure e ripensamenti, finalmente mi sono deciso: ho inserito i pronomi nella bio di Instagram. Per chi non lo sapesse il social da qualche tempo offre la possibilità di indicare il genere in cui ci si riconosce: maschile, femminile o non binario. Mi sono preso del tempo, ero indeciso e un po’ intimorito, poi ho premuto salva.

Adesso posso dirlo: quanto spazio, quanta aria in più nella mia mente dopo aver selezionato quel they/them (che non è “loro”, come qualcuno dice, ma potrebbe piuttosto essere tradotto in italiano con “ləi”, usando la dibattutissima schwa). Non mi sento maschio, non mi sono mai sentito maschio, non sono un lui e non sono una lei. L’impostazione binaria – del mondo e della lingua – non mi offre lo spazio per esistere, in quell’aut aut io non ci sto, non ci sono mai potuto stare.

Storia personale e collettiva

Prima di averlo capito, mi è stato fatto notare. A cinque, sette, dieci anni: quel che sono, dal punto di vista dell’identità di genere, sin dalla prima infanzia ha creato problemi. È più di trent’anni che mina alla base le mie interazioni sociali, e proprio perché so che per qualcuno è ancora tanto difficile capire il senso del linguaggio inclusivo, vorrei condividere l’effetto di liberazione, apertura – e oserei dire “correttezza ontologica” – che ho provato dopo questa modifica della mia carta d’identità digitale.

Per un momento con quell’ammissione pubblica d’anomalia è come se il cielo sopra la mia testa si fosse aperto di più: non si tratta affatto di una posizione ideologica, come qualcuno dice, o di un gioco, una posa, una moda. Nel mio caso quei pronomi onorano semplicemente un dato di fatto, testimoniano un modo di essere, un destino non scelto, personale ma anche collettivo.

È la nostra storia, una faccenda individuale ma anche di comunità, la storia di tutti quelli che non hanno trovato rifugio né in un genere né nell’altro, la storia di tutti quelli che si sono dovuti adattare, amputare, nascondere, sin dall’infanzia, per vivere in un mondo blindato su due binari, un mondo nel quale per le commistioni o le terze vie non c’era posto.

È una storia di desideri repressi, con le buone o con le cattive, di insulti fioccati in casa e all’esterno, di giochi, quadernoni, costumi di carnevale proibiti, di cambi di marciapiede e passi costretti ad accelerare, nella speranza di non essere riconosciuti nel proprio affronto alla norma.

È una storia anche di parole subite, di una lingua utilizzata come corpo contundente: ce le siamo sentite dire a oltranza, e ancora prima di padroneggiare la lingua italiana, le parole che sanzionavano la nostra oscenità: frì frì, ricchiò, masculone, femminello, frocio, camionista, rottoinculo, checca, fighetta. È così strano che anche nella lingua ora intravediamo le risorse per appropriarci della nostra differenza? È così assurdo che nel linguaggio, anche nel linguaggio, andiamo cercando il posto che per noi non c’è stato?

Certo, io ho un corpo sessuato, fornito di caratteristiche determinate, specifiche – pene, barba, molti peli –, ma ritenere che dalla dotazione anatomica di nascita parta, volenti o nolenti, una linea retta che conduce inesorabilmente a una psiche, a una mente, a un modo di essere e solcare la scena del mondo, oggi possiamo dirlo confortati anche dai pareri della comunità scientifica: è un vizio del ragionamento, una fallacia, un pre-giudizio. L’uso della nostra natura corporea può variare, è territorio di autodeterminazione: il corpo, per quanto orrore possa fare ai nostalgici del vecchio mondo, si può alterare, nell’uso e nella forma, nella natura biochimica, nelle pratiche sessuali, nella sua possibilità di ruolo, interazione, relazione. E in futuro, a occhio e croce, sarà sempre più così.

Pusillanimità

Un pensiero allora vorrei rivolgerlo a chi ha preso l’abitudine di sfottere questi temi e i loro interpreti, a chi li maneggia con goliardia, sufficienza e piglio da bar: cari paladini della lingua di sempre, nella paura forse di non trovare posto nel nuovo che incombe, voi vi ostinate a scaricare livore e ignoranza sulle vite di persone di cui nulla sapete, ma che hanno biografie intimamente modellate dal non riconoscimento, da esperienze precoci più che ingombranti, da ferite clandestine aggravate dal fatto che, fino a poco tempo fa, lo spazio per condividerle, vederle, liberarle nel mondo, neppure era ipotizzabile, dato che la società agiva di concerto nell’imporre standard e parametri “di natura”, rimuovendo gli invertiti, i fallati.

Qui non si tratta del poter o non poter fare ironia o finanche parodia: è che chi vive questi temi sulla propria pelle vorrebbe trovare, nei luoghi della cultura generalista, qualcosa di diverso dall’ironia e dalla parodia. Beninteso, posso capire le perplessità e persino le critiche: io stesso vivo con una certa difficoltà il tentativo pratico di far combaciare punto per punto un modo di essere e una serie di abitudini linguistiche, antiche e automatiche –, ma un conto è chi argomenta con interesse, rispetto e cognizione di causa, ben altro è il caso di chi, non comprendendo l’origine di certe istanze, sistematicamente spernacchia, mette alla berlina. Chi sceglie questa scorciatoia dimostra soprattutto piccolezza di testa e chiusura di cuore, ma anche una certa pusillanimità, perché è proprio facilissimo suscitare ilarità con ciò che scuote il senso comune e si confronta con un regime comunicativo sedimentato.

Non occorre brillantezza, acume, talento: ridicolizzare in questo campo è la cosa più semplice, e il fatto che a imbarcarsi in teatrini del genere siano oggi anche persone che hanno confidenza con l’arte delle parole e il lavoro del pensiero non può che gettare più a fondo nel baratro della sfiducia. Perché non si riesce a fare questo piccolo sforzo di decentramento cognitivo? Perché l’ascolto risulta così raro in tutti questi profili pubblici che dovrebbero avere la curiosità in cima al proprio ordo amoris? Proviamo a salvarci dal pensare che le questioni per cui vale la pena spendersi siano solo quelle che, a oggi, ci è stato concesso capire.

Ricerca del nuovo

Le cose, torno a dirlo, non sono semplici da nessun lato della discussione. Come si potrà notare questo articolo, ad esempio, contiene una lampante contraddizione: il suo autore afferma di non sentirsi né maschio né femmina e poi ricorre alla prima persona maschile. Se è vero che mi stranio e qualcosa in me subito si irrigidisce quando mi sento dare dell’“uomo” o del “maschio”, lo stesso non accade con le declinazioni al maschile di verbi e aggettivi. Credo c’entri il fatto che al maschile abbiamo (purtroppo) imparato ad associare anche una dimensione di neutralità: la mia identità non binaria non viene penalizzata perché il maschile sovraesteso è applicato anche alle donne.

Ci tengo a evidenziare quest’aporia perché il territorio è complicato e tutto da sperimentare, far proprio: ognuno, a suo modo, con la sua storia e gli strumenti di cui via via si fornisce, ma possibilmente con lo slancio della ricerca e non le manganellate del domatore di bizzarrie.

Io non so se gli strumenti a oggi ipotizzati, schwa in primis, siano la risposta unica e definitiva a una costellazione di temi e problemi: magari ce ne possono essere altre, ne arriveranno altre, magari diventerà abitudine, chissà, fluttuare nel parlato usando, per sé e/o l’interlocutore, il maschile e il femminile, come per esempio faccio io con i miei amici omosessuali (nella comunità gay maschile è una pratica molto diffusa, nasce per gioco ma poi spesso si fissa, e il femminile negato di colpo prende a vivere anche così, modellando confidenze e discorsi seri).

Quello che mi pare sempre più evidente però è che i centri del dibattito si sono moltiplicati e la lingua, che non può che riflettere e assorbire movimenti e sommovimenti in atto, reca e recherà traccia di queste trasformazioni progressive e riparatrici.

La lingua la fanno i parlanti, si sente dire, certo, ma nel frattempo attraversiamo tutto un clima, un’atmosfera. L’auspicio per chi ha a cuore il linguaggio, la vita e le loro imprevedibili interazioni è che il tenore di questi nostri passaggi – e incontri, scontri, confronti – possa elevarsi un poco, o perlomeno ampliarsi, che l’occhio prenda a curarsi dei margini del suo campo visivo: spesso il nuovo ci prende alla sprovvista partendo proprio da lì.

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