Il film Diciannove è un esordio raro, un racconto autobiografico di agre tenerezza. L’ingrediente centrale di questa ricetta è la cultura classica, alla base della struttura narrativa del film: «C’era questo piacere di studiare cose un po’ peregrine. Ero effettivamente sinceramente innamorato di quel modo di scrivere»
Raramente si è visto un esordio come Diciannove di Giovanni Tortorici. È quasi impossibile trasferire il sentimento di agre tenerezza che la storia – pienamente autobiografica – di un ragazzo appunto di quell’età ti inietta addosso. Con la naturalezza fintamente pacata di una mano registica che lascia stupefatti, per come si infila in un sentimento che abbiamo avuto tutti e che incredibilmente non era stato mai raccontato al cinema. Se non da episodi d’esordi della new wave mondiale di fine anni Sessanta, che però Tortorici non sembra tenere a conto più di tanto.
L’ingrediente centrale di questa ricetta è il più straordinario di tutti: la grande cultura classica, che il regista ha approfondito con foga in qualche modo punk e che sta alla base della struttura narrativa del film. Parliamo solo di questo.
Quindi quand’è che nella tua vita viene fuori il cinema?
Prima ho pensato di scrivere e basta. Durante i 19 anni avevo l’ambizione di diventare uno scrittore eccellente, ma il mio canone di scrittore era quello del primo Ottocento.
Ma poi perché?
Perché, come si vede anche in Diciannove, ero arrivato a delle situazioni pesanti di tristezza, di depressione che mi facevano immaginare un futuro da scrittore molto cupo, triste. E quindi è venuto fuori il cinema come idea, come la possibilità di qualcosa di meno spiacevole. Più promettente, un po’ anche più sociale. Mentre come scrittore mi vedevo solo in una stanzetta o eremita in qualche microborgo.

Questo era legato al lucchetto che avevi messo sulla sfera sessuale o aveva a che fare con una pura ipersensibilità?
Penso che comunque tutto parta un po’ dalla sessualità. Beh, insomma, per me è andata veloce, è stato faticoso. Tramite un lavoro di analisi e presa di coscienza è arrivata quella cosa.
Ad certo punto verso la fine del film, il protagonista in un salotto inciampa in questo psicanalista, Sergio Benvenuto.
Sì, sì. Sergio Benvenuto. Ero un ammiratore del suo libro. In passato l’avevo contattato prima di girare il film. Ci eravamo incontrati a Roma perché ero un ammiratore e lui è allievo e molto amico di Elvio Fachinelli, che anche lui avevo letto.
A quell’età uscivi dalla cameretta? Leonardo (nda: il protagonista) passa parecchio tempo a letto, specie a Siena, quando – dopo un tentativo di fare una Business school a Londra – approccia finalmente gli studi classici.
A volte anch’io avevo problemi ad alzarmi, cioè stavo fisso nel letto, avvolto di lato e mi ricordo che studiavo anche molto la notte. A un certo punto succedeva che andavo a dormire tipo alle nove di mattina, poi alle dodici di mattina poi all’una.. Finché ho fatto un intero giro e sono ritornato un orario normale. Però è durato un po’di tempo.
C’è una cristallina bestemmia nel film, quando a Leonardo si rompe il sacchetto della spesa. Molto sentita.
All’epoca lo facevo in modo più accorato, nel senso che comunque veramente leggere in continuazione quegli scrittori cattolici cattolici, in qualche modo mi influenzava. Dire una bestemmia era più pesante rispetto magari alla leggerezza con cui le uso oggi. E mi ricordo anche – leggendo I promessi sposi – mi sentivo un po’ avvicinato a Dio, a queste idee qua.
Però Manzoni non è citato. Hai menzionato più Dante. Ad un certo punto c’è una disquisizione durante un esame sugli antichi commentatori della Divina Commedia. Citavi il Tommaseo, non sono il Landino. Ma perché ti eri infilato in questo genere di derive?
Sicuramente a livello molto inconscio c’era anche questo piacere di studiare cose un po’ peregrine. E desuete, si dice.
Devo dire che ero effettivamente sinceramente innamorato di quel modo di scrivere. Leggevo molte grammatiche, molte disquisizioni sulla lingua. Mi ricordo che nacque – tutto questo approfondimento di questa letteratura – quando ero ancora in quinta liceo e io odiavo a morte il mio professore di italiano.
Lo odiavo proprio terribilmente e lessi questo scritto sulla letteratura italiana di Parini. E Parini citava tantissimi autori, magnificandoli, tantissimi autori che noi non avevamo completamente affrontato. E quindi sentii che nel momento in cui io li avessi studiati, approfonditi, eccetera, avrei avuto un sapere che lì dentro mancava. Mi ricordo i gesuiti del Seicento, tutti questi scrittori in lingua importanti che poi col tempo dopo diventano una ramificazione enorme. E che sono stati poi abbandonati un po’ dalla critica novecentesca.
Ti interessava questo tipo di erudizione per andare a ripescare una specie di sentimentalità perduta? Una serietà perduta?
Anche, Sicuramente sì. Serietà perduta.
Arriva a Siena la sorella e Leonardo la porta a fare un giro turistico.
Per evitare di farle vedere la sua povertà e la sua vita. Anche perché lei gli aveva detto “Fammi vedere i tuoi amici, eccetera eccetera”. Lui che non aveva amici, i suoi amici erano i libri con la muffa. E la porta a fare tutti questi giri di cose che manco lui aveva mai visto. Che infatti io stesso non avevo visto.
Quindi la figurazione classica, dopo la letteratura classica, entra la tua formazione?
No, ero stato talmente inglobato nella stanzetta coi libri che nemmeno avevo la cosa di girare, manco mi rendevo conto di essere una città importante dal punto di vista storico-artistico. Eh sì qui il raccordo infatti non è nemmeno casuale, sulla scelta di questa città. Perché io/lui ha questo mito anche ottocentesco della letteratura toscana derivante della parlata toscana che era considerata la migliore, la più ricca delle lingue.
Ma su questo è passata sopra la storia della letteratura italiana di De Sanctis. Per il personaggio questo segna l’inizio della fine della letteratura italiana perché De Sanctis cerca di portare verso uno stato di modernità europea la letteratura italiana che in quel periodo veniva da un neoclassicismo con Vincenzo Monti e Pietro Giordani. Anche di Leopardi ne parla comunque abbastanza male. Parla male di molti di quegli scrittori che invece idolatravo e che idolatra Leonardo, ossia dei gesuiti del Seicento, quel Bartoli che legge molto. Questo simbolizza come l’inizio del declino della giusta e vera letteratura.
È una catasta culturale che crea uno stacco netto da tutto il panorama del cinema che la circonda ma nel quale io però non vedo un’italianità, stranamente.
Dipende che intendi. Ma diciamo che non è che ho abbia mai ambito ad inserirmi in uno specifico mercato o in un pubblico... Mi sento molto anche esotico per certi versi. Ho una passione molto forte per il cinema di Hong Kong, ma anche d’azione, di genere. In quel periodo ero molto appassionato di Takashi Miike. Un po’ mi era venuto per cercare di fare corrispondere questo cinema di forma con la letteratura dei gesuiti del Seicento che nelle espressioni nei modi erano proprio iperbarocchi.
Perché ti senti in dovere di raccontare la tua vita? Cioè, che glie ne frega agli altri di quello che è successo a te?
Allora secondo me allora perché io ho veramente avuto molta molta ammirazione e passione per le opere autobiografiche. E quindi mi ricordo che ad esempio tra i miei libri preferiti ci sono l’autobiografia di Benvenuto Cellini o la vita di Vittorio Alfieri. E poi Leopardi, per il quale tutta la sua opera è tutta la sua vita. E mi ricordo che Leopardi diceva che nel momento in cui un artista parla – o dice di sé stesso – mette da parte tutta la retorica. E anche scrittori di non di ottimo livello, quando parlano di sé stessi, si elevano. E anch’io nel mio processo capivo di cercare in assoluto lavori autobiografici. Adesso per esempio sto per girare un film sui miei 16 anni.
A me piace parlare molto di cose vissute. In assoluto. A volte questa giornata meriterebbe un film a sé, penso. Questo pomeriggio meriterebbe un film. Quindi di materiale ce n’è a fottere, come dicono. Però vediamo. Si fa uno per volta. Quindi in qualche modo c’era chi diceva – mi scuso per la banalità che però è vera – che la vita è cinema. Per me è più la biologia. Vabbè. Meno male se diventa noiosa, racconti quello. Se la vita diventa noiosa, la faccio diventare attentissima con il cinema.
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