- Si tiene a Milano, dal 17 al 21 novembre, la decima edizione di BookCity, la manifestazione dedicata al libro e alla lettura.
- Reduce dalla pandemia e dagli incontri online, quest’anno BookCity torna in presenza nelle librerie, nei teatri e auditorium, nelle università e nelle biblioteche della città, scegliendo come tema portante la parola “Dopo”. Il programma completo su www.bookcitymilano.it.
- Qui presentiamo il testo inedito di Jonathan Bazzi, che parteciperà all’evento di chiusura di BookCity il 21 novembre alle 19:00 al Teatro Franco Parenti di Milano.
Lavo i piatti e ci sono, dice mia madre infilandosi i guanti. Io, lei, il mio ragazzo e mia sorella, dopo l’abbuffata di orecchiette al ragù di lenticchie, la farinata e le melanzane a fungitiello – tramontate le resistenze iniziali ormai anche lei è votata alla cucina vegetale –, partiamo dal palazzone popolare simil sovietico del complesso di viale Lazio per risalire a piedi lungo il Naviglio e arrivare a Milano.
L’idea è mia: secondo te quanti chilometri saranno?, e per rispondere a mia sorella apro e chiudo mappe su Google, senza fortuna. Quattro o cinque, butto lì, per rassicurare. Mani avanti: massimo sei – in realtà sono più di dieci.
Il marito di mia madre rimane a casa: cotto, dice, sono cotto, al lavoro oggi un troiaio – ed è grazia discesa, per me e Marius, più che sollievo. Sebbene negli ultimi anni io abbia ripreso a parlarci, continuo a non reggerlo, non lo sopporto io e non lo sopporta neppure il mio ragazzo: il tipico esemplare che trova nella recita castigatrice e boriosa, divertente solo per sé stesso, la propria posizione nel mondo (ignoriamo ancora che è successo di nuovo, altre volte nel corso degli ultimi anni, mi riferiranno, il marito di mia madre ha alzato le mani).
Allora noi andiamo, va’ che mi porto le chiavi, ci vediamo dopo – lei che lo saluta prima di aprire la porta sul pianerottolo pieno della luce di marzo e scendere le due rampe di scale a capo della nostra spedizione improvvisata.
Sottile mistero
Milanofiori Chiesa Rossa Stadera Tibaldi Ticinese Via Torino, costeggiando all’esterno Gratosoglio: questo l’itinerario che mi disegno in testa mentre temo che mia madre e mia sorella si sottraggano in anticipo: l’aria ancora troppo fredda, la stanchezza, il sole che a un certo punto inesorabilmente inizierà a salutarci, la necessità di far ritorno a casa coi mezzi a un orario per loro già affollato di ombre e demoni dell’ansia. Vorrei lo facessimo insieme questo tragitto sulle rive del Naviglio Pavese – noto in origine anche come il canale di Pavia –, un tratto di strada non solo reale: ciò che per me prima era desolazione e senso di confinamento ora ha un certo spirito da parco a tema.
A differenza di ciò che osservo accadere a quelli che arrivano a combinare qualcosa – senza eccezioni parlano del quartiere con nostalgia e rispetto, fierezza, amorevole riscatto –, io per due decenni ho odiato a morte il posto in cui sono cresciuto, mi sono vergognato nel mostrarlo al di fuori, a chi stava altrove, in città o nelle periferie borghesi, e ho avuto paura nel muovermici dentro. Con me, dentro di me un solo scopo: allontanarmene, smettere di farne parte. L’ho sopportato e poi eliso, tranciato via, mai esistito.
Da quando ho smesso di viverci qualcosa in me ha preso a slittare. Un certo amore strisciante anche per le zone di passaggio, i lembi di terra poco considerati che circondano il mio paese alle porte di Milano, simile a molte altre periferie interne o esterne alla città.
Mi ossessionano le campagne originarie su cui sessanta, settant’anni fa il potere, in alleanza con la necessità, ha deciso di costruire con materiali prefabbricati queste tane per disgraziati e terroni, ai margini del campo visivo sociale. Ho scoperto che aleggia un certo sottile mistero attorno alle forme senza cura e futuro riservate a chi non doveva, davvero, stare a Milano: io che sono tutto e solo urbano, incatenato alla saturazione di stimoli, mi sorprendo a esaltarmi nelle brevi o prolungate transizioni naturali – campi, torrenti, piccoli fossati – attraverso le quali, alternatamente, abbandono e riassumo l’identità che mi è capitata e quella che ho scelto.
Riso e latte
Gli aironi che planano col fiordaliso sullo sfondo, le nutrie che tutti vorrebbero sterminare e che gli immigrati vengono accusati di arrostire e divorare dentro ai cespugli, le aperture sconfinate e silenziose del tragitto più ambito a bordo del tram 15 o dell’autobus 328 con direzione Famagosta, Barona. È questa la direzione che rievochiamo, a partire dal ponticello di Milanofiori, Assago, che sovrasta il Naviglio dentro cui fluttuano i pesci minacciati dalle canne dei pescatori domenicali, a due passi dalle palazzine rivestite di specchi in cui ha lavorato mia nonna, originaria di Catania e impiegata negli uffici del gruppo Rinascente fino alla metà degli anni Novanta – da buona Capricorno iniziò come commessa alla Upim e fece carriera, il che periodicamente spinse l’altra mia nonna, casalinga costretta a sfilare di nascosto dal portafoglio i soldi al marito, a dire: chissà quanti se ne sarà fatti in quegli uffici.
Gli uffici davanti ai quali la aspettavo con mio padre, in macchina, incollando storte le figurine di Biancaneve o della Sirenetta, in attesa che scoccassero le cinque e lei, perennemente cotonata, impellicciata, profumata, incipriata, l’armamentario anni Ottanta ancora al completo, riemergendo dalle autorevoli vetrate dell’edificio arrivasse da noi. Ma’, guarda oggi chi ti ho portato. Amore hai già fatto merenda? Stasera lo vuoi riso e latte?
Le scimmie di Rozzano
Alzaia Naviglio Pavese, siamo in marcia, otto gambe dal passo in sincro tra l’acqua grigio melma e una fila di alberi smilzi: il mio ragazzo davanti con mia sorella, io un paio di metri indietro con mia madre e le scimmie di Rozzano. Lo sai che al Piccolo Zoo di viale Lombardia – il negozio di animali all’incrocio centrale del vialone principale di Rozzi, Rozzangeles, dove ho comprato innumerevoli tartarughe e pesci rossi, aspettativa di vita media: due giorni – quando ero piccola io vendevano anche le scimmie? Stavano su, al piano superiore, io mi infilavo di nascosto su per le scale pur di andare a vederle: le tenevano in gabbia legate con le catene, le scimmie a Rozzano negli anni Settanta. Erano cattivissime, dice mia madre, se non stavi attenta ti si attaccavano ai capelli quelle puttane.
E poi: quando coi nonni vivevamo a Cassino c’era una signora che ne aveva presa una: lei e il marito non avevano potuto avere figli, tenevano la scimmietta come una bambina, pannolino, vestito con le balze. Dovevi vedere come si arrampicava, e le scene che facevano tutt’e due quando quella saliva sull’albero e non riuscivano più a tirarla giù. Scendi Manuela, l’avevano chiamata Manuela, le ore a svociarsi: scendi che ti fai male.
Cassino Scanasio, la minuscola frazione di Rozzano nota per il castello dei Visconti da Vimodrone – un mio compagno delle elementari che dice: lo sai che sottoterra c’è un passaggio che dalle segrete di Cassino porta fino al Castello Sforzesco? Io che mi immagino a procedere fiaccola in mano nel corridoio di pietra che mi fa sbucare a Cairoli.
Periferie di ieri e di oggi
Oltrepassiamo Cassino, Valleambrosia, alla sinistra i piccoli orti che un tempo il Comune offriva agli abitanti, operai con la passione per l’agricoltura, meridionali di estrazione contadina desiderosi di continuare a seminare e raccogliere, seguire i dettami dei cicli stagionali anche quassù in mezzo al cemento. Orti infestati adesso, gramigna e ortica, covi di ratti e di bisce, nessuno che ci coltiva più niente. Testimoniano con la loro manifesta rovina la sorte generale di questi luoghi, paesi e quartieri tirati su in fretta e furia per ammonticchiare i poveri: il progetto originario legato alle ditte della zona nei decenni si è svuotato di senso, le fabbriche hanno chiuso, fallimento, trasferimento, e i quartieri sono rimasti, sempre più pieni di famiglie, a inventarsi con rabbia un posto che non esiste.
Famiglie italiane e oggi non solo: la più grande differenza tra la periferia in cui sono cresciuto io e quella di oggi sono i negozi di macelleria halal e kebab, le tavole calde latine e le drogherie cinesi. Ormai c’ stann’ solo llor’, ripete mia nonna. Molti negozi diversi da quelli che costellano la mia memoria, molti negozi diversi eppure una libreria mai, non c’è mai stata.
Quando ero piccolo, per me Milano e libreria erano sinonimi: il centro della città era le vetrine colossali tappezzate di volumi, le sequenze di scaffali dalle distese policrome di coste, copertine, illustrazioni, titoli (predilezione assoluta: i volumi bordati di rosa dei Gaia Junior – amore non è che sei ’nu poc’ frì frì). Ero pronto a mentire per contrappormi alla resistenza comune e portarne a casa almeno uno: paventavo compiti, la maestra in classe ha detto che è obbligatorio, oppure: mi serve per fare la ricerca di storia. I libri per me sono in origine posto migliore e insieme menzogna.
Oltrepassiamo il confine: lasciamo Rozzano e la spedizione prosegue in un’area mediana che non mi riesce di nominare né localizzare, immagino: la porzione del Naviglio parallela a viale Missaglia, il corrispettivo campestre del vialone su cui generazioni intere oscillano, hanno oscillato, e io stesso negli anni della scuola, dai margini all’eventualità di un pezzo di tutto. Nella mezza palude che qui lambisce il ciglio della strada, discariche abusive da cui svettano ante di mobili e oblò di lavatrici.
Infilzati nel fango delle rive scoscese i cimeli di archeologia tecnologica: Vhs scaricate qui chissà quando e ancora intatte, videoregistratori, uno spicchio di vinile. In lontananza ecco i parallelepipedi bianchi delle otto torri, i totem di Gratosoglio: Mahmood vive ancora lì?, chiede mia sorella. Fino a poco tempo fa sì, viveva sempre con la madre al Basmetto, la parte con i condomini privati, ora non lo so, ho letto che cercava casa da solo.
La nostra marcia continua in silenzio fino a quando percussioni euforiche e fiati sbilenchi ci parlano di un accampamento non troppo lontano, dall’altra parte del Naviglio, il raduno stabile di veicoli e tende del campo rom. Chissà che festeggiano, dico, mentre sollevo in aria una gonna immaginaria, ruoto e inizio a ballare. Mia madre che ancheggia, mia sorella e il mio ragazzo che arrangiano un casqué, le braccia al cielo e le mani a ventaglio, esplosioni di polpastrelli schioccanti, nacchere, risate. E passi, altri passi, ormai al cospetto del fianco in mattoni della cascina di Chiesa Rossa, sede della biblioteca in cui venivo a studiare con Irene e Simona, compagne di classe e poi d’università – Simona che sta pensando di fare il concorso di bibliotecaria ma è frenata perché si è resa conto, anche grazie agli itinerari che abbiamo accumulato insieme negli anni, che le biblioteche comunali sono tutte in zone di merda.
Meccanici e officine
Ci colpisce la spropositata concentrazione di officine: lungo la strada che da Rozzano porta a Milano sono tutte officine e autorimesse, meccanici, riparatori di bici, rivenditori di pneumatici. Con tutta evidenza per l’intero secolo scorso crocevia di transiti, un’arteria fitta di viaggi e trasbordi di pendolari.
Mia madre che a questo punto commenta: il nonno l’altro giorno – sono andata a tagliargli le unghie, dopo l’ictus con le mani non riesce più – mi ha detto: quando sono arrivato a Milano lavoravo in una fabbrica vicino Pavia, non puoi capire i pianti al mattino su quella bicicletta 66 in mezzo alla nebbia. Quando muoio mi riportate a Napoli?
Garage, elettrauto, zona di meccanici: anche il mio bisnonno per una vita ha fatto questo, meccanico nostalgico del Ventennio, le fedi del matrimonio con gioia cedute alla patria, due anelli di ferro in sostituzione, resi preziosi dall’orgoglio che ancora ci infetta. Con la moglie vivevano nelle case popolari vicino al San Paolo, ma proprio qua da qualche parte aveva l’officina. Non saprei dire dove, a che altezza, traversa, mamma tu te lo ricordi? Quando io sono nato lui era già in pensione.
Notti milanesi
Tra i racconti legati al periodo: il ricordo di quando il suo amatissimo pastore tedesco, femmina di nome Nana, era caduto nel Naviglio e riemerso coperto di sanguisughe. Inizia Ascanio Sforza, ormai ci siamo, e qui torna a sorridere mio nonno Pier, padre di mio padre, impiegato alle Poste di giorno e istruttore di nuoto alla sera, questa è la zona che amava di più, quella dei locali di culto della notte milanese di un tempo. Musica dal vivo, jazz, cabaret in dialetto, Paolo Rossi, Gaber e Jannacci, le sue scorribande di gioventù prima che arrivasse il tempo del matrimonio, la gravità che lo inchiodò al quartiere dormitorio. Da Rozzano, dov’era finito, lui parlava sempre di quest’altro mondo di canzoni, serate, teatri, di questa terra gremita di cose che lo facevano sorridere e stare sveglio la notte, che gli facevano muovere le mani come sistemando le note nell’aria. I locali attorno al Naviglio, dove con mio padre lo siamo andati a riprendere più volte ubriaco. Jonny non ti preoccupare, il nonno è contento perché oggi ha ricevuto una bella notizia. Lui che mi si avvicina e con un filo di voce mi dice: da grande devi fare l’artista.
Ma che ore sono? Le saracinesche abbassate di osterie, trattorie: più di due ore da quando siamo partiti. Aspettiamo che scatti il verde all’incrocio di viale Tibaldi, dove mia madre ha lavorato per un decennio: cassiera alla Sma, ora il supermercato dove ha conosciuto il marito è diventato Esselunga. Ultime tappe, San Gottardo quindi Ventiquattro Maggio, che ci si spalanca davanti. Voi che fate?, chiedo, mentre una folata di vento solleva in aria la pashmina lilla di mia madre, che lei riabbassa coprendosi il collo, arrivate con noi in Duomo o girate in Col di Lana? Sopra alle nostre teste il cielo ha cambiato colore. Torniamo indietro, dice, prendiamo il 15 in Porta Lodovica, ci sentiamo dai, fai il bravo mi raccomando. E le guardo avviarsi a compiere all’inverso questo dato di fatto.
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