Tutto comincia quando Oriana viene spedita a casa dell’uomo del secolo: Christian Dior. Lei lo aveva già intervistato nel 1949 dopo averlo braccato nella hall di un albergo fiorentino. Dieci anni dopo è a Parigi pronta a non cedere: «Quando gli chiedo perché sia ancora scapolo, mi risponde con voce finalmente decisa: “Mademoiselle, dedico alle donne quattro quinti della mia vita. Quando entro in casa, non voglio più vederle né sentirne parlare”. Infatti non ho visto che camerieri».

La cultura pop che si fa largo nel mondo risorto dal dopoguerra scopre, insieme ai divi del cinema e del jet set internazionale, anche gli stilisti. Oriana, allora una delle poche donne nelle redazioni italiane, non ha nessun interesse per argomenti e personaggi così frivoli, ma intuisce il potenziale politico delle dichiarazioni anche dei grandi nomi della sartoria, alcuni già transitati sugli scranni del Parlamento come Emilio Pucci.

Da Coco Chanel a Yves Saint-Laurent, da Roberto Capucci a Mary Quant, ognuno di questi incontri diventa un’occasione per rileggere il mondo, per mettere a confronto il punto di vista del couturier con quello degli appassionati che si indebitano per acquistare i vestiti della sua linea di moda. «Un tempo la moda la facevano i ricchi e i vestiti indicavano il grado di ricchezza o la posizione sociale. Oggi la moda la fanno le ragazzine, le duchesse vestono come le dattilografe». È la fine di un’epoca che una giovanissima Oriana racconta con lo stesso talento con cui poi darà voce alle grandi tragedie della Storia.


Parigi, febbraio 1957

D’un tratto Monsieur si impenna e sulla sua faccia bonaria, che arrossisce per un nonnulla, appare un’espressione di sdegno. I suoi occhietti già stupefatti mi fissano con odio, le sue manine lisce e curate incominciano a tremare. Istintivamente mi ritiro: per paura che mi strozzi. Ma no: non vuole strozzarmi. Si copre la faccia, invece: ed è chiaro che soffre, che è annichilito.

È successa una cosa incredibile. Io, che sono venuta a Parigi per scrivere un articolo su Christian Dior, non mi intendo di moda. Io, che sono stata ricevuta in casa di Christian Dior (un onore riservato a pochissimi), ignoro cosa sia il taglio in sbieco. Io, che gli ho fatto rimandare l’appuntamento con un ambasciatore e bevo il Porto nei suoi preziosi bicchieri, non so come si ottenga il plissé soleil. Nel mezzo di un discorso, mentre egli si affannava a spiegarmi quale fosse la linea che ha creato quest’anno, ho detto con sciocco candore: «Non capisco dove sia la novità, Monsieur».

Tuoni e fulmini. I lampadari di cristallo di rocca hanno tremato, le fotografie degli avi hanno rischiato di ruzzolare dalla mensola su cui li custodisce Monsieur, l’aria s’è fatta satura di elettricità. Mi sono sentita più a disagio di quando, sulla strada di Budapest, quattro mongoli armati mi puntarono il mitra contro lo stomaco. Con voce stupida farfuglio qualcosa, dico che il mio francese è inesatto e non mi sono spiegata bene. Ma il pericolo è passato. Monsieur ha già superato la crisi e sta per perdonarmi.

Lentamente si alza, mi tira su per un braccio e, quando sono in piedi davanti a lui, mi acchiappa alla vita con tutte e due le mani. Poi mi chiede: «E questo, secondo lei, cos’è?». «Un tailleur», rispondo. Certo che è un tailleur, ed anche bello. Me lo ha cucito una delle sarte più brave d’Italia, m’è costato un occhio della testa, e ne vado fierissima. Mi fa la vita di vespa, l’ho indossato per venire da Dior pensando che gli avrei fatto buona impressione. Invece Monsieur lo guarda con schifo. «Questo non è un tailleur», dichiara. Poi mi stringe la vita fino a farmi male, mi sbatacchia come uno shaker nel quale abbia versato gli ingredienti di un cocktail e, del tutto insensibile alla mia faccia infelice, dichiara: «È tutto sbagliato. Sì. La vita è troppo marcata, le basche sono troppo lunghe, lo scollo troppo modesto, via quei taschini. Mademoiselle, questo indumento è passato di moda. Vuol vedere come si fa?». E, senza chiedermi il permesso, mi slaccia il tailleur, mi rimbocca le basche, mi fa salire le spalle, mi allarga la vita, mi spalanca lo scollo. Infine, quando sono ridotta a una specie di clown senza forma, infagottata in un cencio che fu il mio migliore vestito, mi spinge davanti a uno specchio ed esclama: «Voilà. Ora si che è una ragazza à la page. Deve vestirsi così». Ed io, vigliaccamente, annuisco. Non c’è nulla da fare.

Ciò che la moda comanda

So che la sua linea a tubo mi sta malissimo: eppure anch’io l’adotterò insieme ad altri milioni di donne. Ho indossato i suoi abiti larghi e lunghi fino alle caviglie, quando impose il New Look. Quegli abiti mi stavano male. Non riuscivo a salire in treno né a correre. Eppure l’ho fatto. Ho accorciato i miei vestiti quando lui ordinò la lunghezza fin sotto il ginocchio. Ho portato l’assurdo cappotto della linea A che mi faceva assomigliare a una cipolla. Ho indossato perfino, Dio mi perdoni, i suoi vestiti a fagiolino: schiacciandomi tutta, fra atroci sofferenze, in quella linea H che aboliva il seno. E so già che quest’anno porterò i suoi vestiti difficili e assurdi e metterò nell’armadio il mio classico tailleur: perché lui lo vuole, perché lui è il padrone. Potete essere intelligenti o stupide, disinvolte o timide, anarchiche o conformiste: non riuscirete mai a sottrarvi alla dittatura di questo normanno placido e tondo che impone i suoi gusti alle donne di cinque continenti, a questo despota che tiranneggia e seduce senza avere un goccio di sex appeal e chissà come, a cinquantadue anni, non è ancora sposato.

La sfilata dei primi dieci anni

E poi bisogna farlo il nuovo atto di sottomissione a Monsieur. Questo mese, infatti, Monsieur celebra le sue nozze di legno con la Haute Couture. Sono passati dieci anni dal giorno in cui egli aprì l’atelier, al numero 30 della Avenue Matignon, e allora era un modellista povero e oscuro, oggi è Dior. Giovedì 31 tutta Parigi parlava dell’Anniversario, l’interesse è così grande che gli inviti erano esauriti da mesi. Molta gente sedeva sulle scale pur di vedere la sua collezione; per un vero miracolo si trovò una sedia alla duchessa di Windsor.

Le giornaliste che fanno il giudizio del pubblico c’erano tutte: ammantate di visone e olezzanti di profumo da trentamila franchi la bottiglia. Gremivano le sale dai muri color crema e laccati d’oro, all’ombra delle ciliege e dei mughetti (portafortuna di Dior) e ostentavano le volubili facce impolverate di cipria. Nascosto dietro una tenda, nel camerino delle mannequins, Monsieur tremava a vederle. Ecco Carmel Snow, con gli occhi spenti e l’aria da uccello imbalsamato: s’è messa un completo di Balenciaga per fargli rabbia.

Ecco Bettina Ballard, con l’espressione spietata e il lapis pronto a trafiggere come un pugnale: con quel cappello di Givenchy sembra giovane come vent’anni fa. Ecco tutto lo stato maggiore di Vogue, dell’Officiel, di Harper’s Bazaar. Sarebbe bastato il giudizio negativo di una a distruggere dieci anni di successo. Quando è uscito il primo modello, addosso alla bionda Victoire, Monsieur è stato sul punto di svenire. Quando ha udito una risata, che non era diretta a un vestito, gli hanno dovuto far bere un cognac.

Quando è giunta l’eco di un applauso, si è buttato in ginocchio a pregare. E quest’incubo è durato tre lunghissime ore, a un certo punto Monsieur ha avuto una crisi di isterismo. È successo per via di un tailleur che aveva l’orlo scucito. Monsieur s’è messo a gridare che lo volevano in croce, straziato come Gesù Cristo, e una sartina è scoppiata in lacrime, Victoire è scoppiata in lacrime, tutte sono scoppiate in lacrime e in meno di un minuto l’intero laboratorio sussultava in un coro di singhiozzi e di lamenti che salivano al cielo. Monsieur ha il cuore d’oro.

Per il rimorso, s’è messo a lacrimare anche lui e così, piangi che piango, la memorabile sfilata è arrivata all’abito da sposa che chiudeva la collezione. Allora Monsieur si è affacciato timidamente al salone sollevando la tenda, ed è avvenuta la scena seguente. Quelle adorabili streghe si sono gettate su di lui, strillando come cinciallegre spennate, lo hanno coperto di baci e di abbracci, se lo sono passato di pelliccia in pelliccia, stringendoselo al seno sorretto da dolorose guêpières, e infine lo hanno lasciato inebetito e felice nelle mani di Madame Raymonde, la première.

La faccia di Monsieur era tutta sporca di rossetto, e alla giacchetta gli mancava un bottone. È lo stesso Dior che mi racconta il trionfo dopo che, cessate le critiche al mio tailleur, si decide a parlare di se stesso.

Il rifugio di Dior 

La sfilata dell’Anniversario è ormai chiusa: Monsieur preferisce ricevermi a casa, nel Boulevard Jules Sandeau, dove si riposa dopo tante emozioni. Il Boulevard Sandeau si trova in una delle zone più quiete e costose di Parigi: se non fosse esistito prima che lui nascesse, giurereste che l’hanno costruito apposta per quest’uomo delicato e gentile, che osa arrabbiarsi solo quando parla di moda. La casa è una delle più belle di Parigi e Monsieur la chiama «il mio rifugio».

Bandita la televisione, la radio e le visite, i rumori della città vi giungono radi e attutiti, come sott’acqua. Solo Cocteau, carissimo amico di Christian, vi ha libero accesso. Il salone dove ci troviamo è fastoso come quello di una reggia. Monsieur l’ha foderato di arazzi e di velluto rosso, ci ha messo dentro i mobili più preziosi di Francia, tutti in stile Luigi XVI, ha coperto le pareti di Renoir, di Braque, di Picasso, di Van Gogh, ha riempito ogni buco di ninnoli rari.

Le tende sono sempre abbassate perché la luce del giorno non rovini questi oggetti da museo e siccome un raggio di luce filtrava, Monsieur ha chiamato il maggiordomo che è entrato con passi felpati, leggero come un fantasma, ed ha provveduto a far buio. Ora solo due minuscoli abat-jour illuminano la pallida faccia sulla quale trema, in perpetuo, una espressione di incertezza e di paura. Paura di chi? Di me? È davvero un tipo strano, Monsieur.

«Il fatto è, Mademoiselle, che io sono molto intimidito dalla sua presenza e mi scuso se mi capiterà di deluderla. Fra tutti gli uomini io sono il meno adatto a recitare la parte di Dior».

Da Processo alla mingonna, Rizzoli, 2025


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