Per Ermanno Cavazzoni lo scrittore appartiene alla tendenza Cuore (politicamente corretta) della letteratura. «Le sue sono fiabe che le tenebre le sfiorano» soltanto, ma senza esplorare davvero gli abissi dell’inconscio
Il centenario della nascita di Italo Calvino, che cadrà il prossimo 15 ottobre, è l’occasione per riprendere in mano uno degli autori più celebri e, in fondo, più enigmatici della nostra epoca. Come viene ricordato oggi Calvino e come è stato letto nel tempo?
Giorgio Manganelli tracciò, a suo modo, una delle più acute analisi quando, tre anni dopo la morte di Calvino, nel 1988 uscirono le Lezioni americane: «Ad un certo punto della sua lunga, tortuosa storia di scrittore, Calvino si accorse di essere dominato da una passione retorica esclusiva, una passione cui si dedicò con una tacita, ostinata, schiva devozione: la chiarezza. (…). La limpidezza mimava una arguta ingenuità, presupponeva una pagina unidimensionale, liscia, ignara di anfratti, trasparente (…). La scoperta della chiarezza dello specchio condusse Calvino per le strade della fiaba, del mito, gli consentì di sfiorare le tenebre, di misurarsi con l’enigma (…). Calvino non tollerò che l’enigma osasse liberarsi dallo stile del gioco».
Mi pare di scorgere un sorriso da Gioconda sul volto di Manganelli nel pronunciare queste parole: chiarezza, gioco, tenebre… A chi chiedere lumi?
La commedia all’italiana
Il primo nome che viene in mente è Ermanno Cavazzoni, emiliano classe 1947, funambolico e raffinato autore de Il poema dei lunatici, da poco tornato in libreria con il divertentissimo Il gran bugiardo (La Nave di Teseo). Perché Cavazzoni? Perché è uno di coloro che oggi usa le parole come un tempo le usava Manganelli: per gli strati di significato invisibili che celano. Gli leggo il passo, e reagisce: «Sono sicuro che Manganelli era ambivalente su Calvino».
«In che senso?».
«Calvino è uno di quegli autori di cui si deve parlar bene… È stato forse uno dei primi autori viventi che ho letto, ma non al tempo del liceo. È stato scolasticizzato dopo, una fortuna e un guaio insieme».
«Spiegati meglio».
«Secondo me, nella nostra storia letteraria, ci sono due filoni paralleli: uno comico, buffo e irregolare che passa attraverso Pinocchio di Collodi e un altro che passa da Cuore di Edmondo De Amicis. Calvino è di quest’ultima linea: so che dirlo è impopolare, però se ci pensi è un autore politically correttissimo; non c’è una parolaccia, l’italiano è bellissimo, esemplare, da perfetto tema in classe. Giustamente è stato adottato nelle scuole come modello di scrittura perfetta, ben fatta. Allora: in un primo tempo l’ho ammirato, con la trilogia de I nostri antenati, l’ho molto apprezzato per la sua fantasia e originalità.
Poi l’ho ridimensionato, sinceramente. Il suo libro che preferisco in assoluto è Le città invisibili, che però ha il guaio di contenere il Kublai Kan e tutte le meditazioni relative e che prendono su di sé la maggiore attenzione critica, i discorsi che Marco Polo fa con l’imperatore; mentre le città, isole autosufficienti di immaginazione, con enorme compiacenza verbale, sono la parte migliore; che poi Calvino ha condito con le riflessioni. È un libro estremamente ammirevole, per me, ma che indica il passaggio di Calvino a una sorta di letteratura-riflessiva, forse influenzata dalla semiologia e semiotica.
Diventa un autore oltre che adatto alle scuole medie, anche per semiologi, perché i semiologi ci trovano quello che lui vi ha messo volutamente dentro, vale a dire riflessioni sulla rappresentazione, presenti in tutti gli ultimi libri, come Palomar. Il paragone con Cuore lo faccio non perché si somiglino, anzi sono completamente diversi, ma per altri elementi, tra cui la correttezza ideologica. Cuore sta dentro il Risorgimento e intende costruire il cittadino italiano: i buoni sentimenti, la sincerità, la generosità. Libro dignitosissimo, intendiamoci, che però considero il versante contro-riformista dell’Italia.
Mentre invece il versante autentico è quello che parte dal Decameron, completamente anticonformista – basti pensare a tutti i preti che scopano allegramente – perché i valori di allora, siamo nel Trecento, sono presi in giro, è una forma di scetticismo. E poi l’Ariosto e gli altri poemi cavallereschi italiani, all’opposto rispetto a quelli europei che provengono dalla Chanson de Roland, il poema che fonda l’Europa antislamica, la grande guerra tra islam e cristianesimo. Quando i poemi arrivano in Italia sono trasformati in cose buffe: in Luigi Pulci i cavalieri cominciano a essere dei piccoli maniaci, come Morgante, un gigante ridicolo, che cadendo schiaccia tutti i cavalieri.
Ho sempre pensato che sia il gusto più autenticamente italiano, quello della leggera comicità: come nella commedia all’italiana, dove se fai un furto va a finire tutto male, come ne I soliti ignoti. Il genere della malavita fatto da sfigati che invece di rubare mangiano la pasta. I nostri poemi cavallereschi fanno la stessa cosa. Ma prendiamo anche I promessi sposi, bellissimo; un romanzo morale, serio, però qual è il personaggio memorabile? Don Abbondio, che è Alberto Sordi».
«Alberto Sordi?».
«Sì, perché essere Don Abbondio significa in fondo essere un prete che però non crede alla religione. Siamo già nella commedia all’italiana. Ed è il filo più autentico della lingua italiana, sia nella narrativa che nel cinema, ma anche nella musica: pensiamo all’opera buffa, da Rossini in su! La sua musica irride all’Arcadia europea del suo tempo. Il gusto del comico come miscredenza. Tornando a Manzoni, è un ottimo autore, e l’ironia non rende I promessi sposi un libro devozionale».
Il gioco
Lo interrompo: «Torniamo un momento alla riflessione di Manganelli su Calvino: non mi è chiaro quando parla di gioco. Tu cosa ne pensi?».
«Che c’è in Calvino un elemento di gioco che viene proprio dai poemi cavallereschi, si vede nella Trilogia. Anche il Sentiero dei nidi di ragno, rispetto al racconto stereotipato partigiano, è notevole, dissonante. È parente de I piccoli maestri di Luigi Meneghello. Dopo però, nel complesso, prevale l’ortodossia, il bello scrivere, i sentimenti buoni, e poi l’aspetto semiologicheggiante. E poi c’è una cosa che mi irrita: e cioè che se uno parla o scrive la parola “leggerezza” deve subito far riferimento a Calvino, il quale diventa un’autorità su quel terreno».
Gli dico che, parlando con Gian Carlo Ferretti, il grande storico dell’editoria italiana scomparso da poco tempo, mi era capitato di ragionare sul fatto che la leggerezza calviniana potesse essere, piuttosto, una ricerca di leggerezza, una disperata ricerca.
Cavazzoni medita: «Certo, una disperata ricerca di leggerezza. Ma ti giro la frase in un altro modo: io dico tendenza all’infantilizzazione del racconto. La leggerezza diventa una forma di infantilizzazione, come se il racconto dovessero ascoltarlo dei bambini. Pensiamo all’Ariosto, dove la leggerezza domina su tutto, eppure Ariosto non è mai riuscito a diventare un libro scolastico.
Mancano i valori seri. Non si può fare un ritratto morale di Angelica! Sono come carte da gioco, non c’è infantilizzazione. E arriviamo a Pinocchio: un libro nato per i bambini, che invece suona agli adulti come un libro carico di quello che oggi diremmo “inconscio”. I lati oscuri della mente. Sono convinto che Manganelli lo adorasse, lui ha sempre lodato gli autori oscuri… I temi che ha dentro, l’impiccagione, il gatto e la volpe, sono tutti oggetti mitici. Affonda nelle zone oscure dell’uomo».
«Il ventre della balena…».
«E nei Promessi sposi, l’avvocato Azzeccagarbugli? Un personaggio che invece di risolvere in due parole Manzoni sviluppa benissimo».
«Un’altra formula che mi ha colpito del ragionamento di Manganelli è quando fa quella specie di ossimoro: “arguta ingenuità”».
«Ecco: quella che Manganelli chiama “arguta ingenuità” è quella che io ho definito “infantilizzazione”».
«E quando dice che Calvino “sfiora le tenebre” a cosa allude per te?».
«Ha ragione. Prova a pensare: le sue sono fiabe, come Il cavaliere inesistente, che le tenebre le sfiorano! Nei fratelli Grimm, invece, ci sono abissi di orrore; c’è di tutto, compreso l’inconscio. Calvino sfiora, resta sopra. Non c’è quella cosa che senti risuonare nel mito. I suoi sono miti artificiali: il cavaliere fatto solo di armatura, è geniale, è l’essenza dei poemi cavallereschi, ma non ha radici in qualcosa che resta dentro e che tu riconosci. Il mito è quello che tu riconosci, come Frankenstein, sebbene il libro di Mary Shelley non valga niente, ma il mito viceversa è profondissimo e arriva fino ai robot e ai computer, fino a E.T. di Spielberg. Creare un uomo! E nello stesso modo Dracula, ma anche gli zombi di George Romero. Il mito turba. Calvino, dice Manganelli, sfiora il campo del mito ma resta al di qua del vetro».
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