Quella che stiamo attraversando è un’estate di pensieri estremi e indesiderati. La pandemia non è ancora davvero finita, ma percepiamo i termini del suo ridimensionamento sulla base di quante cose siamo tornati a fare. Li percepiamo anche sulla base di quanto possiamo avvicinarci fisicamente agli altri. La tentazione, cui nell’emisfero occidentale quasi nessuno sa resistere, è di utilizzare questo momento per tornare ad allontanarsi – senza mai uno sguardo indietro – dal pensiero della morte, ovvero della sua stessa esistenza.

Tuttavia è un’estate che non lascia in pace, costellata da incendi, crisi politiche, temperature fuori controllo (quindi dall’inevitabile pensiero della finitezza collettiva), molto lontana dalle atmosfere da Festivalbar che un tempo hanno alimentato le più rosee chimere di questo paese. Ricorda più quella dei Baustelle che, già nel 2003 con il pezzo Reclame, cantavano «in ogni morte trovo che/un po’ d’estate in fondo c’è».

Questa atmosfera viene colta da Viola Di Grado, nel pezzo uscito sulle pagine di Domani del 13 luglio appena passato. Nel suo articolo Di Grado intercetta infatti un tema tanto cardine quanto sotterraneo di questa estate contemporanea: la morte nel mondo digitale. Lo fa sviscerando una notizia che ha fatto un certo clamore. Alexa, l’assistente digitale amata da milioni di utenti, presto sarà in grado di riprodurre le voci dei nostri cari estinti e far loro dire ciò che desideriamo.

L’idea spaventa, perché l’impressione è che venga fatto saltare un confine eticamente invalicabile, ma Di Grado da un lato analizza le possibili criticità del progetto (tra cui il non trascurabile rischio di appropriazione di identità e tentativo di azioni fraudolente) mentre dall’altro ipotizza che, proprio ad Alexa, venga in questo contesto demandato un ruolo sciamanico. Si chiede se questa possa essere  una nuova forma rituale, profondamente diversa da quelle passate, ma inscritta comunque nel percorso che porta i vivi a separarsi dai morti attraverso un percorso strutturato.

Digital death

La morte digitale, al pari del concetto di morte in generale, è territorio che tendiamo a tenere ai margini del pensiero. Tuttavia, con l’aumentare degli utenti e lo spostamento di grosse fette di dati e vita nella dimensione online, è anche di attualità sempre più stringente. Davide Sisto, filosofo, tanatologo e ricercatore presso l’Università di Trieste, è uno dei massimi esperti in questo campo. Dopo i primi saggi La morte si fa social (2018) e Ricordati di me (2020) ha recentemente pubblicato Porcospini digitali, suo ultimo lavoro su morte e tecnologia edito come i precedenti da Bollati Boringhieri.

Con Sisto avevamo già avuto modo di parlare, sulle pagine di Domani, delle reazioni social in seguito a casi di cronaca nera che vedono coinvolti utenti (siano essi vittime di crimini o autori dei medesimi) con impostazioni della privacy pubbliche. In questa occasione torniamo a contattarlo per dipanare la matassa di quella che definisce “carne digitale”, argomento al centro di Porcospini digitali.

Corporeità del virtuale

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Com’è scrivere un saggio su morte e tecnologia nel pieno di un’emergenza sanitaria globale, che rende imprescindibili proprio questi due temi? «A volte», racconta Sisto «faccio fatica a parlarne, perché ho patito a scriverne. Ora che la vita ha recuperato buona parte delle sue dinamiche lavorare a nuovi progetti, senza quella forma di alienazione, è già più semplice. L’intenzione iniziale di questo libro, in parte purtroppo confermata dalle vicende della pandemia, era di uscire dalla dimensione strettamente tanatologica e fare un discorso più ampio». La morte si fa social, infatti, si occupava di immortalità digitale, mentre Ricordati di me poneva l’accento sulla memoria.

«Questo terzo lavoro», prosegue Sisto, «si chiede che cosa siamo nella dimensione online, e come questo incida nella vita prettamente fisica, in quanto esseri biologici. Il mio interesse, tengo sempre a sottolineare, era quello di uscire dalla contrapposizione tra reale e virtuale». L’idea portata avanti da Sisto, e che fatica a passare nella narrazione mainstream al punto da essere pressoché inesistente, è quella di focalizzarsi sul concetto di carne digitale, più che su quelli di immagine e rappresentazione. «Non amo quando si utilizzano questi ultimi due termini», dice, «perché rimandano all’idea di un’assenza. Mentre la nostra presenza online è molto di più di un mero prolungamento. C’è un investimento emotivo e fisico, attraverso gli schermi continuiamo a svolgere una serie di attività che riguardano la nostra vita indipendente da essi, e su questa incidono».

Ampliando il raggio Sisto fa un esempio drammaticamente attuale: «In Porcospini digitali non lo cito in modo esplicito, ma il problema del revenge porn mostra proprio come una rappresentazione intima, se viene diffusa, può incidere in modo anche mortale sulle vite fuori dagli schermi. Dal mio punto di vista quel che avviene online ha qualcosa di estremamente corporeo. Con la pandemia siamo stati costretti a bloccare i nostri corpi fisici, perché erano sotto minaccia, e abbiamo continuato a vivere attraverso quelli digitali».

Ma questa sostituzione è andata ben oltre la dimensione lavorativa e produttiva: «Ci siamo frequentati nelle stanze virtuali, abbiamo videogiocato su Twitch e svolto molte altre attività sociali. Uno degli elementi fondamentali di questa vicenda è che siamo stati qualcosa di più e non qualcosa di meno, siamo stati i primi esseri umani che in un contesto pandemico hanno continuato a svolgere le attività principali seppure chiusi in casa e isolati fisicamente».

Digital liveness

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Fin dal primo saggio Sisto si è sempre mosso tra bibliografia accademica, riferimenti letterari in senso stretto ed elementi di cultura pop contemporanea. Porcospini digitali non è da meno e, anzi, i riferimenti cinematografici e musicali (dalla serie distopica Black mirror, al film apocalittico Don’t look up, fino Touch me I’m sick, brano dei Mudhoney tornato di moda all’inizio della pandemia) sono forse incrementati rispetto ai lavori precedenti.

«Sono convinto che la cultura pop in senso ampio sia la cifra della società odierna, è impensabile affrontare temi del quotidiano senza considerare che siamo condizionati da ciò che vediamo e ascoltiamo. Inoltre, pensando al mio campo di ricerca, è evidente che la pandemia ha amplificato delle trasformazioni interessanti. Penso ai concerti in realtà virtuale. I Korn ne hanno fatto uno, cui si poteva accedere solo su Youtube, nel luogo in cui in parte è stata girata la serie Stranger Things».

Questo ci porta al tema della digital liveness, che a sua volta tocca la dimensione della mortalità. «Non ci rendiamo conto», dice Sisto, «che la normalità con cui parliamo di esperienza dal vivo è cosa recente. È un concetto che prima dell’invenzione della radio non aveva semplicemente senso».

Studi attuali evidenziano come la distinzione sia sempre più complessa, che assistere a un evento dal vivo non significa necessariamente essere presenti con il corpo e, con la riproducibilità, inevitabilmente subentra anche il discorso tanatologico: «Se esiste una registrazione che ci rende presenti nell’istante, ma anche a posteriori, ecco che siamo di fronte a un’esperienza spettrale. L’esempio pratico è quello di una studentessa che segue le lezioni online di un professore deceduto nel 2019, ma che scopre di aver seguito una persona morta solo dopo qualche tempo».

Alexa

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Facendo un passo oltre e arrivando all’immortalità digitale, Sisto spiega che ultimamente, mettendo per un attimo da parte Alexa, i principali progetti che si muovono in quest’area ricordano il nostro utilizzo degli assistenti vocali: «Un caso più organico è quello del progetto Here After AI di James Vlahos, applicazione che permette di sottoporsi a una serie di interviste sulla propria vita, associando delle immagini, per produrre un avatar interattivo che rimarrà sotto forma di racconti registrati e, poi, potrebbe anche evolverli».

Secondo Sisto questo è di fatto ciò che sta accadendo con Alexa. «Per chi si occupa del campo questo non stupisce, è ovvio che con tutta questa mole di dati si cerchino di fare degli esperimenti. Da parte di chi riceve la notizia è invece comprensibile che ci siano delle reazioni negative e respingenti». Il ricercatore stesso non manca di evidenziare l’esistenza di elementi in potenza problematici «come il consenso all’utilizzo della propria voce, l’uso da terze parti, il rischio di deepfake e di frodi».

Elementi di dibattito possono essere messi in campo anche sul piano dell’elaborazione: «In seguito a degli incontri con psicologi che se ne occupano, ho in effetti appreso di un incremento di casi di mancata elaborazione accompagnata all’utilizzo dello smartphone e di altri elementi simbolici legati alla sua attività». 

Ma esistono almeno altri due elementi da considerare. Da un lato la legittimità di ritagliarsi uno spazio, per ascoltare la voce del proprio amato, con la consapevolezza della differenza tra reale e irreale. Dall’altro quello degli studi sul recupero di memorie perdute, che potrebbero essere utili per malati di Alzheimer e demenze; così come quello delle memorie legate alla dimensione famigliare. «Per fare un esempio personale, uno dei miei  nonni», prosegue Sisto, «è morto che avevo sette o otto anni, e ne ho ricordi estremamente limitati. Con questi strumenti se ne sarebbero potute conoscere modalità espressive e caratteristiche, sapere come parlava, se utilizzava o meno il dialetto...». 

Occasioni perse

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Da tanatologo, Sisto afferma di essere ben felice della sua natura di parentesi che ha avuto una data di nascita e avrà una data di morte. Prova il dispiacere che si prova all’idea che delle persone soffriranno per la nostra dipartita, ma il suo lavoro sarà stato fatto, e non ha interesse a lasciare grandi tracce. «Detto questo», conclude, «viviamo in un’epoca che non ha la minima capacità di scendere a patti con le assenze e le perdite».

A condizioni cosiddette normali e non pandemiche, la nostra società ha visto un importante aumento dell’aspettativa di vita e miglioramento delle relative condizioni. Questo ha contribuito al rifiuto della perdita in senso stretto e in senso lato, ha portato a una visione estremamente performativa dell’esistenza e, conferma Sisto, «in una società performativa la morte è una debolezza, ma noi siamo tenuti a dimostrare di non avere debolezze». Nel caso Alexa ci troviamo dunque di fronte allo scontro tra il desiderio di essere sempre (e per sempre) presenti e la ferrea volontà di non accettare né pensare alla morte.

Tra opportunità e criticità connesse alla morte digitale resta il fatto, in fondo a queste riflessioni, che la pandemia è stata un’enorme occasione persa per quanto riguarda il nostro rapporto con la morte e il morire. Sisto evidenzia come anche il negazionismo e il rifiuto dei vaccini siano un «sintomo gigantesco della sua rimozione, del non accettare che la propria vita sia a rischio». Il secondo fattore riguarda media, comunicazione e istituzioni: «Siamo passati dal parlare della pandemia dalla mattina alla sera a un invito a ritrovare solarità e benessere, senza rendersi conto che il trauma del riconoscerci vulnerabili non può essere superato nascondendolo sotto al tappeto». Dal punto di vista del discorso tanatologico siamo un paese in cui bigottismo, superstizione e paure rappresentano un ostacolo forte. Ma, forse, le nuove generazioni sono più propense a un approccio differente.

Futuro

FeatureChina

«Ho fatto alcuni incontri nelle scuole e nei licei, non si tratta di un numero che possa fare statistica, ma è vero che ho incontrato ragazze e ragazzi molto consapevoli. Non ci sono state reazioni impaurite o sconvolte di fronte al mio lavoro. Questo forse è da ricondursi anche al fatto che, durante l’adolescenza, il tema della morte ha un suo ruolo formativo». Un esempio calzante e numericamente di rilievo, in tal senso, può essere senz’altro quello dell’hashtag #grieftok diffusosi sul social network TikTok: «Questo hashtag raccoglie milioni di video in cui persone giovanissime rappresentano il loro modo di vivere il lutto. Uno studio ne ha contati trentamila che raccontano la perdita di un genitore. Credo che da parte degli adolescenti ci sia il bisogno di trovare parole e spazi di espressione per parlarne e vivere l’argomento in modo più attivo».

Anche su questo aspetto il dibattito è piuttosto animato e, se da un lato c’è chi ritiene che queste pratiche possano essere sintomo di una generazione più consapevole, dall’altro c’è la maggiore diffidenza di chi riconduce il tutto a una forma di esibizionismo analoga a quella degli adulti. «Io mi pongo in una posizione meno estrema», dice Sisto, «perché penso che il doppio fine sia nella natura dell’umanità, e ci sarà sempre qualcuno che, anche in contesti non tecnologici, cerca di usare il dolore a suo vantaggio. Non voglio però escludere la possibilità che questi strumenti ci permettano di avere adulti meno segnati dai tabù e dalle superstizioni».

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