Funziona come un franchising. Dopo averlo aperto a Malmö, il suo ideatore Andreas Ahrens ha aperto altre tre sedi e promette la quarta entro la fine dell’anno. L'obiettivo è spiegare che di immangiabile per davvero non c'è nulla e che una dieta diversa può aiutare l'ambiente
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Andreas Ahrens è proprietario, Ceo e direttore del Disgusting Food Museum di Malmö, di Berlino e aprirà a metà maggio quello di Palma di Maiorca in Spagna. Tre musei in sette anni.
Perché se è vero che il racconto del buon cibo funziona, anche quello del cibo disgustoso va alla grande. Ahrens ha un lungo curriculum da imprenditore nel settore IT, ha viaggiato tantissimo ed è appassionato di cibo.
L’effetto «bleah»
Il Disgusting Food Museum svedese viene inaugurato nel 2018 e raccoglie un'ottantina di cibi, ricette e ingredienti che potrebbero definire immangiabili, provenienti da ogni parte del mondo. C'è un'area espositiva, ma anche un bar degustazione dove assaggiare alcune di queste pietanze.
L'obiettivo del suo ideatore è quello di far riflettere sul relativismo culturale applicato al cibo e sulla sostenibilità ambientale, ma punta anche all'effetto wow o per meglio dire bleah : «Il senso di un museo così concepito», spiega Ahrens, «è sulle differenze nelle culture alimentari, ciò che è delizioso in una cultura potrebbe sembrare disgustoso in un'altra, ma ogni cultura ha i propri «cibi disgustosi», cioè cibi che sono unici in una o più culture, ma così diversi dal resto del mondo da poter essere considerati sgraditi.
Il disgusto è un'emozione universale che esiste in tutti gli esseri umani per proteggerci dal mangiare cibi potenzialmente pericolosi. È essenziale per la sopravvivenza della specie umana».
Il curatore potrebbe raccontare infinite storie legate ai visitatori, da quelli che non reggono alla vista e all'assaggio – d'altronde il biglietto di entrata altro non è che un sacchetto di carta – a coloro che scoprono di trovare prelibati cibi che mai avrebbero pensato di assaggiare.
A tutti si chiede una dose di tolleranza antropologica, ma è uno sforzo che funziona visto che il Dfm è tra le attrazioni più amate in città.
Il tema della sostenibilità
Sette anni fa Ahrens aveva un socio, Samuel West, uno psicologo californiano trasferitosi in Svezia, rimasto colpito dalla lettura di alcuni studi che sostenevano che la autorizzata del consumo di carne a favore di quello degli insetti avrebbe favorito il rallentamento dei danni causa dai cambiamenti climatici.
L'idea di un museo sui cibi disgustosi nasce proprio da lì, dalla volontà di associare il raccapricciante nel piatto all'idea di rendere più sostenibili i consumi.
A mali estremi, estremi rimedi, anche con le gambe sotto il tavolo.
Uscito West dalla società, è rimasta l'anima sostenibile del progetto: «È il secondo dei nostri principi fondanti», continua Ahrens, «dobbiamo ripensare l'assunzione di proteine se vogliamo essere più sostenibili.
Cibi come gli insetti e la carne coltivata in laboratorio sono soluzioni migliori per l'ambiente rispetto alle carni di animali quali maiali, mucche, polli, pesci e altri ancora. Si tratta solo di dare ai primi una chance».
Nonostante i paesi scandinavi abbiano rappresentato, negli ultimi anni, l'avanguardia della cucina contemporanea – soprattutto di stampo vegetale – viene da pensare che un museo così in Italia avrebbe attirato più critiche che curiosità.
Un sano distacco dall'imperante cultura del cibo italico forse farebbe bene anche a noi: «Nel vostro paese – continua l'imprenditore – avete un cibo buonissimo e questo crea una distanza da altre culture culinarie, ma posso dirti che i visitatori italiani apprezzano molto alcuni alimenti nordici come il surströmming (aringa fermentata del mar Baltico) l'hákarl (piatto islandese a base di squalo fermentato) e la liquirizia salata (conota come salmiakki)».
Ho assaggiato tutto
La formula del Disgusting Food Museum è quella del franchising e sul sito web sono descritti tutti i passaggi necessari per aprire una filiale. La seconda sede è a Berlino, a maggio arriverà quella spagnola e Ahrens promette, entro la fine dell'anno, un'altra esposizione con nuovi partner.
Il principio base condiviso è quello di educare il pubblico sul futuro dei cibi e sulle differenze culturali alla base di ciascuna alimentazione, ma qualche differenza c'è: «L'esposizione di Berlino», spiega Ahrens, «ha uno spazio più grande e alcuni oggetti esposti sono unici, mentre quella di Malmö si concentra di più sui banchi di assaggio e offre più campioni da provare. Abbiamo una sezione dedicata alle bevande disgustose, ma è stata sostituita dalla mostra sui cibi pericolosi più di un anno fa. Stiamo lavorando alla nostra prossima mostra temporanea incentrata sulla fermentazione».
Sui social del museo ci sono gli annunci di lavoro per le nuove aperture. Il credo dei dipendenti è « I tasting everything» e chissà se il colloquio di lavoro comporta l'assaggio di una tarantola o dello sperma di merluzzo.
Certo è che una selezione per gli allestimenti va fatta e richiede un notevole impegno: «Facciamo ricerche molto approfondite, sia online che offline», continua il direttore del museo, «su libri e articoli di ricerca. Vogliamo diversi mesi per verificare i dettagli e assicurarci di poter utilizzare i testi nell'esposizione. Per essere incluso nel museo, un cibo deve essere amato da almeno una cultura (consumato volontariamente) ed essere considerato disgustoso da altre in almeno una delle seguenti categorie: odore, gusto, consistenza, metodo di produzione/disgusto morale».
Qualche arrabbiatura non è mancata: la Sardegna non ha preso bene l'inserimento dei suoi prodotti caseari come il Su Callu e il Casu Marzu e ha avuto da ridire anche l'Australia in difesa della Vegemite (un estratto di lievito spalmabile) e dei Musk sticks (caramelle rosa che ricordano il sapore del muschio).
Lo stesso patron del Dfm ammette di aver fatto fatica con il Su Callu, il caglio del capretto spalmato sul pane: «Ma tanti visitatori lo adorano», aggiunge.
Insomma, sentire gridare Usch (che schifo in svedese) nelle sale del museo è solo una questione di relativismo gastronomico.
© Riproduzione riservata