- Il documentario è sorprendente perché è in grado di mostrarci esattamente il come e il quando accadde la fine del gruppo di Liverpool.
- Get Back si può guardare dall’inizio alla fine. Oppure per frammenti. La prima parte ha un montage iniziale sulla storia della band. La terza ha tutto il girato del concerto sul tetto della Apple.
- Incapaci di diventare adulti assieme (non avevano neppure trent’anni) restarono per sempre e per tutti il bambino che da qualche parte ci dorme dentro.
Chi ha ammazzato i Beatles? Le quasi otto ore di documentario The Beatles: Get back che il regista Peter Jackson ha ricavato dai materiali del vecchio progetto Let it be di Michael Lindsay-Hogg - 60 ore di immagini, 150 di audio tirate fuori dall’armadio dopo 50 anni - non sovvertono il verdetto emesso da decine di libri sull’argomento.
I colpevoli furono gli stessi Beatles, uno per uno, incapaci di tenere in vita quell’entusiasmo - è la parola usata da Paul McCartney nel primo dei momenti di crisi in quelle giornate - che era la ragione della loro impresa collettiva, il fluido magico di un’amicizia e l’effetto delle canzoni sul pubblico di tutto il mondo.
Una pellicola brillante
La sorpresa sta nel fatto che il documentario è in grado di mostrarci esattamente il come e il quando di ciò che accadde. La brillantezza irreale della pellicola 16mm restaurata redistribuisce ruoli e caratteri ai quattro: Paul, iperattivo ultimo militante del collettivo; John (e Yoko) che si accende solo quando suona il rock and roll, per il resto oscilla tra il torpore silenzioso e una infinita galleria di scherzi e imitazioni; George, genio incompreso con tante canzoni scartate da riempire dieci album almeno; Ringo che di canzoni ne ha una o due stupende, puro dada, e in futuro farà l’attore.
Get back da un volto anche agli altri comprimari: il regista Lindsay-Hogg, la troupe, i produttori musicali George Martin e Glyn Jones elegantissimi e misteriosi, Yoko Ono sempre muta accanto a Lennon come una performance del movimento Fluxus, Linda Eastman e la figlia piccola Heather scatenata una domenica al microfono di pura gioia.
Il quinto Beatles per caso, il tastierista Billy Preston. E stupendi personaggi minori come il roadie e factotum Mel Evans, occhiali quadrati e faccione simpatico, che ha l’incarico di fissare su carta i testi delle canzoni improvvisati da Paul e John.
Peter Jackson, come sua specialità, aggiunge tecniche di restauro audio che scovano dialoghi laddove sembrava ci fosse soltanto rumore. Come in un primitivo reality show assistiamo al momento in cui George Harrison, scuro in volto perché non riesce a trovare un posto nell’arrangiamento di Get Back e Two of Us, approfitta di una pausa pranzo per dire a mezza voce «lascio la band, ci vediamo in giro per locali».
Grazie a un microfono nascosto in un vaso spunta il dialogo in cui McCartney e Lennon razionalizzano l’accaduto: il gioco di ruolo per far accettare un’idea, respingerla o imporla fingendo il contrario è un caso di scuola per ogni gruppo creativo, le sue dinamiche di potere. Harrison rientrerà solo dopo un fine settimana di trattative.
La storia della band
Caricato sulla piattaforma Disney plus, Get Back è un mondo intero. Si può guardare dall’inizio alla fine. Oppure per frammenti. La prima parte ha un montage iniziale sulla storia della band. La terza ha tutto il girato del concerto sul tetto.
Il lato fanatico, ossessivo, ma di totale beatitudine sono le canzoni del disco Let it be offerte nella loro paziente e miracolosa costruzione, a cominciare da Get Back e Don't let me down. La prima, una iniziale improvvisazione di McCartney al basso, ripete i titoli anti immigrati dei giornali di allora (sempre d’attualità, ahinoi).
L’altra è una struggente confessione di Lennon sulla sua dipendenza da tutto e tutti, da Yoko Ono, probabilmente dall’eroina. Entrambe bagnate nel fiume del rock anche roll primitivo – Elvis, Carl Perkins, gli Everly Bros – che è l’unico motivo vero in nome del quale i Beatles stanno ancora assieme e si divertono come bambini.
Senza veti
L’altro volto del documentario è più cinematografico. Con la benedizione dei Beatles ed eredi Peter Jackson può finalmente mettere da parte il veto che impedì a Lindsay Hogg di fare il film-verità che voleva, dato che dal montaggio di Let it Be (1970), poi ritirato, rimasero fuori quasi tutti i momenti rubati.
In quell’inizio d’anno 1969, dopo l’uscita del White Album, del film Magical Mistery Tour (auto prodotto dalla nuova società Apple Corps, “floppone” terribile), dopo lo speciale tv con l’esecuzione live di Hey Jude, i Beatles si ritrovarono agli studi cinematografici di Londra Twickenham per inventare da zero un album, un altro programma televisivo o forse un altro film, avendo soltanto un mese di tempo per altri impegni già presi. Impresa al limite dell’impossibile. Senza rete.
Fino all'ultimo il film è una trattativa sulle regole del film stesso e su come dovrebbe essere il gran botto finale. Che sia l'ultimo atto è l'unica cosa chiara fin dall’inizio, anche se verrà reso pubblico un anno dopo e un altro album, il magnifico Abbey Road. Avrebbe potuto essere un concerto con il pubblico in un parco di Londra, oppure in uno studio scenografato, più comodo.
Già fatto in Around the Beatles provoca McCartney citando il titolo di un vecchio show del ‘64, e rilancia immaginando un film guerrilla di fronte al parlamento («facciamoci arrestare!»). Il regista Micheal Lindsay-Hogg, rotondetto, elegante, sigaro in bocca, loquace e falsamente in controllo della situazione (come chiunque nella sua posizione), rilancia favoleggiando di un concerto nell’arena romana di Sabrata in Libia di fronte a un pubblico di 2mila «amici arabi».
Il tetto della Apple
McCartney suggerisce di portare semmai il pubblico da casa, con una nave. I Beatles finiranno a suonare 40 minuti sul tetto della Apple, nei sotterranei del edificio di Savile Row avevano già registrato buona parte del disco. Qui, nel gelo di gennaio, Lindsay-Hogg girò alcune delle immagini più iconiche e malinconiche di tutto il Novecento. Finalmente possiamo vederle e sentirle tutte.
L'anno prima il più scaltro Jean Luc Godard aveva ripreso una sola canzone dei Rolling Stone in uno studio di registrazione a Londra. Poi aveva girato i Jefferson Airplane sul tetto di un palazzo a Manhattan. Sessantotto a manetta. Gli Stones evocavano le rivolte nelle strade, la simpatia per il diavolo. I Jefferson bloccarono davvero le strade e l’evento richiamò poliziotti più cattivi e da cinema dei tre bobbies perplessi mandati a fermare i Beatles.
In effetti, il tetto della Apple era la location più assurda che si potesse trovare per il concerto d’addio. Pochissimi videro qualcosa. Per strada si accalcò un composto pubblico di signori e signore inglesi di una certa età incuriositi da quanto accadeva. Non più urla le adolescenti della beatlemania. Niente rivolte.
Nel suo evidente fallimento, nell’ostinazione cinematografica di Lindsay-Hogg di “portare a casa” qualcosa comunque (l’idea del concerto sul tetto fu suggerita dal coproduttore del disco Glyn Jones, rivela il documentario), l’impresa dei Beatles resta tuttavia profondamente sessantottina.
Un’autocoscienza sofferta sui meccanismi basic della democrazia, della creatività collettiva, l’autogestione, il rapporto tra cultura e economia, il capitalismo. Non era stato Paul McCartney a spiegare che la Apple, la società che avrebbe gestito le loro attività dopo la morte del manager Brian Epstein, sarebbe stata «una specie di comunismo occidentale?». Disse proprio così in un’intervista.
Gestita con "frikkettona” noncuranza la Apple perse un milione e mezzo di sterline in un anno, ma fu una festa per tutti. Era forse questo l’unico «comunismo occidentale» possibile?
Proprio il fantasma dei Rolling Stone e il futuro della Apple ebbero un ruolo fondamentale nella fine dei Beatles. Durante le riprese Lennon uscì dal suo torpore per incontrare (fuori campo) Allen Klein, il manager dei Stones coi quali aveva appena suonato in un film-concerto girato da Linsday-Hogg.
Klein era un manager da fumetto, uno squalo col sigaro e il cravattone. Ma il lavoro eccellente fatto con gli Stones e il fatto che alcuni guadagni del disco fossero andati in beneficenza per il Biafra aveva convinto Lennon che Klein fosse la scelta migliore possibile. Aveva portato dalla sua parte George Harrison e, più defilato, Ringo Starr.
Incapaci di diventare adulti
È forse il momento più crudele del documentario quello in cui Lennon cade con tutte le scarpe nel fascino di uno di quegli «uomini con la cravatta» biechi blu che aveva sempre detestato (e contro i quali aveva fondato la Apple). Klein non piaceva affatto a McCartney, il quale come manager aveva proposto il padre e il fratello di Linda Eastman, avvocati. Perse. E così finirono i Beatles.
Incapaci di diventare adulti assieme (non avevano neppure trent’anni) restarono per sempre e per tutti il bambino che da qualche parte ci dorme dentro. Curiosità: tra i progetti non realizzati della Apple c’era una versione per il cinema del Signore degli Anelli con protagonisti i quattro Beatles, che Tolkien respinse con orrore.
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