Qualche tempo fa, al tavolo di un bar milanese uno scrittore mio amico mi ha detto una cosa che mi è rimasta impressa nella testa: «noi Domenico Starnone non ce lo meritiamo». Ed è vero, aveva ragione lui, tanto che questa frase mi è tornata alla mente più e più volte, intervistandolo, Starnone. Ha scritto saggi, racconti e romanzi, per il teatro e per il cinema. Ha portato in libreria, e sullo schermo, il mondo della scuola in modo onesto, schietto e vivido. Soprattutto, però, ha reso, con i suoi libri, una schiera di tipi umani assolutamente comuni – medi, per dirla con le sue parole – e al tempo stesso eccezionali.

I protagonisti di Domenico Starnone sono difatti degli straordinari: singolari poiché sono le anomalie della loro stessa storia. Scendendo nelle profondità dell’umano, con passo lento e misurato, l’autore ne ha sempre colto tutte le ambiguità, le tante e diverse direzioni e spinte del desiderio, per riportarle alla luce, per metterle sotto gli occhi del lettore facendole riflettere in relazioni affettive frastagliate, frammentate, onnivore che divampano in tante piccole esplosioni.

È una sorta di scompiglio delle emozioni in cui Starnone, con enorme lucidità, ha sempre operato perseguendo la vita dei più - la vita dell’uomo comune, appunto. Dice in Lacci, Einaudi, 2014: «Perché niente è più radicale dell’abbandono, ma niente è più tenace di quei lacci invisibili che legano le persone le une alle altre. E a volte basta un gesto minimo per far riaffiorare quello che abbiamo provato a mettere da parte».

Ed ecco, a ben pensarci credo che Starnone, forse, abbia molto spesso, quasi sempre, scritto dell’abbandono che infliggiamo alle persone che ci amano e dei lacci che non permettono, mai davvero di lasciarle, queste persone. E cos’altro è l’esistenza se non l’andirivieni di una marea, che ci separa e ci riunisce?

Starnone è da poco tornato in libreria con L’umanità è un tirocinio, Einaudi, 2023 -, libro che è un’autobiografia scandita dai libri che lo hanno influenzato fin da piccolissimo.

Per cominciare, vorrei farle gli auguri, anche se con un mese di ritardo. Lo scorso quindici febbraio ha compiuto ottant’anni, buon compleanno. Ha festeggiato?

Come no. Quando gli anni sono molti diventano trofei, e vanno esposti.

A tal proposito: come trascorre le sue giornate? Ha una routine o segue gli accadimenti e il loro andamento?

Se non ho impegni che mi spingono fuori casa, trascorro il tempo da anziano: leggo, scrivo, ascolto la radio, guardo la tv.

Se glielo chiedo è perché L’umanità è un tirocinio si apre così: «Questo libro è un frutto della vecchiaia, il periodo meno assennato dell’esistenza». Le domando, quindi: perché definisce la vecchiaia un periodo così poco avveduto?

In vecchiaia i freni inibitori si allentano. La vita è fiacca, ma i desideri restano, si affollano, diventano progetti di libro per i quali non hai tempo sufficiente e nemmeno energie inventive. Per quanto ci si atteggi a saggio, si rischia sempre di eccedere immaginandosi ancora giovani.

Ancora un attimo sulla vecchiaia: la sta attraversando così come immaginava di fare o sta andando diversamente da quel che si aspettava?

No, sicuramente meglio. Da ragazzo ho visto ben altre durissime vecchiaie.

Rimorsi o rimpianti?

Rimpianti nessuno, rimorsi abbastanza.

Me ne dice uno tra tutti? Mi riferisco ai rimorsi.

No. I rimorsi sono presentabili solo quando nutrono buoni racconti di invenzione.

Qualcosa invece – un’esperienza, una stupidaggine, una leggerezza – che non ha mai fatto e che oggi le piacerebbe aver fatto?

Non so sciare, e mi sarebbe piaciuto.

Qualche settimana fa, in un’intervista, ha detto che «all’improvviso senti che il futuro non ti preoccupa più». Ho ventotto anni e il futuro mi terrorizza - me e molti altri della mia generazione - le sue parole, quindi, mi rincuorano. Accade in un momento preciso?

No, è stata una lenta presa di coscienza.

Se lo ricorda, quando il futuro ha smesso di preoccuparla?

Le posso dire solo che le ansie sono piano piano sparite, e il “che cosa mi succederà” ha perso il punto interrogativo ed è diventato un tranquillo “succederà”.

Immagino però che delle paure debba ancora averle. Quali sono? E quali sono quelle che il tempo, la vecchiaia, ha cancellato?

Mi è passata la paura della morte. Dura invece il timore di una malattia lunga e invalidante, ma ora è un timore accettabile. È rimasto, invece, lo spavento per il futuro degli altri.

Nella stessa intervista ha anche detto che «Non ci resta che imparare a fallire con un minimo di eleganza». Ci è riuscito, lei?

Mi sforzo di dare questa impressione.

L’umanità è un tirocinio: la ragione di questo libro?

È un esperimento narrativo. Ho provato a raccontare una quarantina d’anni della mia vita – diciamo – letteraria mandando a sbattere l’uno contro l’altro vecchi testi che si occupano di libri molto diversi e che sono stati scritti in momenti distanti tra loro.

Nel libro ricorda il suo esordio narrativo, Ex cattedra, Rossoscuola, 1987, e gli anni precedenti in cui «non scrivere ma leggere ciò che si era scritto era per me insoddisfacente», dice. Comincia a scrivere a sedici anni, rinuncia a venticinque, infine pubblica a quarantaquattro. Cos’è successo in quei diciannove anni, tra la rinuncia e la pubblicazione? E perché, alla fine, si è deciso a tentare nuovamente il cimento della scrittura?

È successo che ho fatto l’insegnante, insegnare mi è piaciuto moltissimo, ho dato uno sbocco giornalistico alla mia grafomania e mi sono sentito in sostanza realizzato. Ex cattedra non è stato il frutto di una decisione – una cosa tipo: basta, ora ritorno a raccontare partendo dalla scuola – ma un effetto del caso. Lavoravo al Manifesto, dovevo scrivere  un pezzo politico-sindacale e invece m’è venuto un raccontino. Il piccolo successo che ne è derivato ha rotto un equilibrio e c’è voluto tempo per trovarne un altro.

In L’umanità è un tirocinio dice che i nonni sono stati di grande giovamento al racconto. In che modo?

I nonni di una volta in qualche occasione raccontavano favole. Più spesso però raccontavano vicende della loro vita che parevano anche meglio delle favole. Ti insegnavano senza volerlo a trasformare l’esperienza in narrazione.

Un nonno o una nonna a cui era particolarmente legato, di cui conserva un ricordo specifico?

La madre di mia madre. È una figura stabile della mia infanzia e dell’adolescenza. Viveva con noi e sicuramente si è occupata di me più di mia madre, che faceva la sarta e a venticinque anni aveva già tre figli. Mia nonna non aveva nessuna istruzione. Per il mondo intero lei era “annadilorenzovedovadalessandro” e lo diceva così, dritto filato, senza pause, una formula che riassumeva tutta la sua vita pubblica in italiano. Per il resto si esprimeva poco e solo in dialetto. Ma quando si sfrenava, raccontava la sua esistenza piena di fatiche e sventure con grande vividezza. Sono partito da lei per inventare la figurina di nonna che ho messo al centro di un racconto a cui sono affezionato: Vita mortale e immortale della bambina di Milano, Einaudi, 2021.

Parla anche dei cosiddetti fatterelli, che le venivano spesso raccontati da sua nonna e che, da ragazzino, avevano su di lei un effetto stupefacente. Quand’è che si è reso conto di poter trasformare pure lei elementi del quotidiano in dei fatterelli?

Oralmente presto, intorno ai dieci anni. A quell’età mi sono scoperto con piacere capace di dire fantasiose bugie fondate su piccole verità. La smania di scrivere è comparsa poco dopo.

«Occorrono le ali, perché i fatti decollino e diventino racconto» dice nel libro. Dove le prende, queste ali?

Spuntano scrivendo. Provi, riprovi e a un certo punto, se sei fortunato, la materia grezza - una scheggia di memoria, un aneddoto - prende il volo e diventa racconto.

Parlando del racconto, della sua costruzione e scrittura, lei dice che d’un tratto «comincia a saltar fuori non la realtà dei fatti, ma altro. Quest’altro non so da dove venga ed è dettato da un solo bisogno: assecondare il percorso della storia». Elena Ferrante in I margini e il dettato, e/o, 2021, dice che non è lei a scrivere ma una creatura dentro di lei. È d’accordo con Ferrante? C’è una creatura dentro ogni scrittore e scrittrice che determina l’altro?

Non credo a un qualche demone che ci abita. Il talento è un’attitudine che non serve a granché, se non è laboriosamente coltivata. Ma anche la più disciplinata delle fatiche non basta, ci vuole un po’ di fortuna. A un certo punto, se attitudine, fatica e fortuna si incontrano, si verifica un salto di qualità che stupisce noi per primi.  

Già che ne stiamo parlando. Senta, a me non interessa (o meglio credo che la volontà di Ferrante debba essere rispettata: se desidera restare nell’anonimato, così dovrebbe essere), ma devo proprio fargliela, questa domanda. È lei o non è lei Elena Ferrante?

No, macché Elena Ferrante.

Fosse lei me lo direbbe?

Se lo fossi, lei sarebbe in gran ritardo. L’avrei già detto a chiunque da qualche decennio.

Facciamo che le credo.

Mi creda, mi creda.

Parliamo dei suoi romanzi precedenti. L’incompiutezza di Federì di Via Gemito, Feltrinelli, 2000, e quella di Aldo di Lacci credo che, per certi versi, comunichino. I suoi personaggi sono spesso degli incompiuti.

Siamo tutti degli incompiuti. I nostri corpi non hanno energie vitali sufficienti per arrivare a compimento, si scaricano molto presto. La fine arriva insieme alla consapevolezza che troppo ci è sfuggito, e non abbiamo capito granché. Più che una fine, è un finale sempre un po’ scontato.

I suoi personaggi sono spesso dei mediocri.

Mediocre suona immeritatamente come una brutta parola. Preferisco dire: persone medie. Come tali, esse sono in affanno sia quando provano a eccedere che quando si sentono in difetto.  

I suoi personaggi sono spesso costretti in delle forme - quella del padre, o del marito, o del ferroviere, o del figlio, o del nonno - da cui, per quanto si dimenino, non riescono a uscire.

È la loro natura di persone medie, non fanno mai passi decisivi. Abbandonano i figli, si trovano un amante, si pretendono artisti, ma poi si spaventano e tornano a far danno a sé e agli altri dall’interno delle forme canoniche.

Che farci con incompiutezza, mediocrità, senso di costrizione?

Be’, si possono raccontare gli esseri umani senza abbellirli troppo.

Di frequente nei suoi romanzi e racconti le gabbie di cui parliamo sono rappresentate da un matrimonio infelice, o da una famiglia che sembra estranea. Perché? Crede che matrimonio e famiglia siano delle trappole?

Mah, coppia, matrimonio, famiglia balzano così agli occhi perché, in quanto perimetri originari di solidarietà e conflitti crudeli, a volte sanguinosi, fanno parte dell’esperienza di chiunque. Di fatto non c’è forma in cui ci chiudiamo che non si riveli una trappola. Ismaele, l’io narrante di Moby Dick, sulla terra ferma presto o tardi si sente perduto, ma sul Pequod gli va ancora peggio. Inventiamo forme per darci senso e acquietarci, ma poi ci  vanno strette e ci sporgiamo oltre il limite. I racconti nascono così, sono rischiosi sguardi di ricognizione.

Per restare sulla famiglia: sia in Lacci sia in Via Gemito i suoi protagonisti si interrogano sulle ragioni profonde delle rinunce fatte nel corso della loro esistenza e sul senso del sacrificio fatto sull’altare della famiglia. Il matrimonio nei suoi libri è un’istituzione obsoleta, una costrizione che toglie tante libertà. Piuttosto, mi verrebbe però da dire, l’impressione che ho è che questi sentimenti siano degli alibi che i suoi personaggi usano per coprire un loro senso d’inadeguatezza.

Il sentimento di inadeguatezza è una molla molto importante. Devo fare, per esempio, l’insegnante, ma non mi sento all’altezza. Allora lavoro per sentirmi adeguato, e per qualche tempo sono contento. Ecco però che l’inadeguatezza si riproduce a un livello più alto, e nascondermela serve a poco. Come narratore mi interessa questo dibattersi, questo torcersi, non il lieto fine di un qualche adeguamento. Racconto l’inadeguatezza in sé, le sofferenze che produce, lo sforzo di sovvertimento che, nel bene e nel male, ne deriva. 

L’umanità è un tirocinio, Confidenza , Einaudi, 2019, Scherzetto, Einaudi, 2016, Lacci: il passato non è mai davvero recluso in un territorio abbandonato e che mai più ci sfiorerà, nei suoi libri il passato torna e chiede il conto. È così che funziona?

Grosso modo sì. Siamo, dal punto di vista narrativo e non solo, essenzialmente generatori di passato. Ne produciamo continuamente ora attualizzandolo, ora tirando le somme, ora redimendolo, ora cavandone profezie che chiamiamo futuro, ora facendo tutte queste cose insieme in un  rischioso affollatissimo disordine. Su cui poi caliamo la sintassi delle storie

Lei che rapporto ha con il passato?

Oggi mi pare un racconto onirico, tutto convenzionalmente al presente come, appunto,  accade nei sogni.  Il rischio però è che vada troppo per le lunghe e diventi noiosamente ripetitivo.

Come pensa sia cambiata la sua scrittura da quando ha iniziato a oggi? Sente qualcosa di diverso quando si pone di fronte alla pagina bianca?

L’ansia è rimasta la stessa. Si è attenuato invece il registro comico a cui ho fatto ricorso ampiamente una quarantina di anni fa per sentirmi autorizzato a raccontare senza troppe pretese.

Quando ha vinto il premio Strega, invece, è cambiato qualcosa?

No.

Circa il panorama letterario contemporaneo. C’è uno scrittore o una scrittrice, per così dire giovane, che le piace particolarmente?

Non uno, parecchi. La stagione mi pare buona. Ma non voglio fare nomi per evitare di dimenticarne qualcuno.

A casa dei miei – ci ho vissuto fino a tre anni fa – abbiamo un mucchio di gatti; il numero oscilla tra quattro e sei: li raccogliamo dalla strada, non riusciamo a lasciarli lì. Ecco, l’ultima arrivata si chiama Labes, come la gatta di Aldo e Vanda in Lacci. La domanda è: pensa mai alla sua eredità letteraria?

No. Bisognerebbe innanzitutto capire se c’è un lascito.

Starnone, la tortura finisce qui, l’ultima domanda: cosa direbbe al Domenico Starnone che a 25 anni si è arreso, ha abbandonato la scrittura?

Allora avevo spropositate ambizioni e, di conseguenza, tutto quello che scrivevo mi pareva pessimo. L’errore, in seguito, è stato rassegnarmi a non puntare troppo in alto. Le do un consiglio, se me lo permette: non ridimensioni mai le sue ambizioni. Oggi sono felice quando qualche lettore generoso mi dice: sei bravo. Ma poi fa capolino il ventenne di una volta che mormora: e Dante e Shakespeare e Franz Kafka?

Rassegnarsi è sempre un errore?

No, la rassegnazione è un ottimo salvagente. Ma prima è meglio fare tutto il possibile per imparare a nuotare.

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