- La scuola (Einaudi, 2022) è il titolo del volume che raccoglie i quattro libri che Domenico Starnone ha scritto a partire dalla sua esperienza di insegnante.
- Un’occasione per rileggere pagine che sono bellissime e divertenti, ma che diventano anche fonti preziose di storia della scuola e dell’insegnamento, visti i numerosi piani temporali che attraversano.
- I libri di Starnone finiscono per tracciare la genealogia di un’idea di scuola e di un tipo di insegnante che non ha mai smesso di riflettere su sé stesso, con ironia ma senza nessuna indulgenza, e senza incarognirsi.
La scuola (Einaudi, 2022) è il titolo del volume che raccoglie i quattro libri che Domenico Starnone ha scritto a partire dalla sua esperienza di insegnante: Ex cattedra (1987), Fuori registro (1991), Sottobanco (1992), Solo se interrogato (1995).
Un’occasione per rileggere tutte d’un fiato pagine che sono innanzitutto bellissime e divertenti, ma che diventano anche fonti preziose di storia della scuola e dell’insegnamento, visti i numerosi piani temporali che attraversano.
Tutto dentro un gioco di specchi che riflette il presente, come se Starnone avesse fotografato, in modo nitido, l’alba dei tempi nuovi, quelli che stiamo vivendo. Tempi non proprio entusiasmanti, di crisi, di auto-critica feroce, eppure con un finale a sorpresa che ci fa chiudere il libro grati e, davvero, per una volta, pieni di speranza.
L’anno dei programmi Falcucci
I diari di scuola hanno inizio nell’anno scolastico 1985-1986, l’anno dei programmi Falcucci e della “grande” mobilitazione degli studenti medi, ma anche di Chernobyl e degli Style Council.
Alle spalle due decenni nei quali il ruolo del professore delle scuole superiori è stato interamente ripensato per dare vita a un “nuovo insegnante” di sinistra. Nessuno però, se non il movimento del Settantasette e qualche intellettuale di destra, si è ancora sognato di prenderlo in giro, questo nuovo insegnante.
Così la rubrica di Starnone segna uno spartiacque nel racconto della scuola post Sessantotto. Il professore progressista, delegato Cgil, buono con gli studenti del tutto indifferenti, circondato da colleghi ignoranti o caratteriali, risulta essere anche lui un inetto, perché incapace di prendere le distanze da un’idea di scuola che, alla prova dei fatti, si rivela del tutto astratta.
Uno spunto particolarmente efficace è, in questo senso, il discorso che Starnone fa sui nomi delle piante. Forse non il tema più visibile. Ma sicuramente fra i più paradigmatici. Starnone lo usa per mettere in luce la distanza fra il “cosa” si pensa di essere e cosa si finisce per essere per davvero, quando, messe da parte letture e ideologie, ci si trova a varcare la soglia di un’aula scolastica.
Il primo incarico
Prendiamo Ex cattedra, (1985-87). Lì, a un certo punto, Starnone racconta del “suo” primo incarico da insegnante, a San Chirico Raparo, dove è arrivato «in un mattino gelato del 1969, dicembre, dopo molte ore di treno nella notte e poi altre ore di viaggio all’alba, su una corriera sgangherata e gonfia di fiati caldi».
Metto fra virgolette il “suo” perché, come scrive nell’Avvertenza che chiude Fuori registro: «Per ultimo: “io” non sono io. Niente di ciò che ho raccontato qui mi è realmente accaduto. Se fatti e persone dovessero sembrare reali, la colpa è tutta della realtà».
Ma torniamo al primo incarico, nell’anno della più grande mobilitazione sindacale della storia, forse non solo italiana, a qualche giorno di distanza dalla strage di piazza Fontana, a due anni dalla pubblicazione della Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana.
Anche le paure del giovane insegnante sono paure dei suoi tempi che qualche anno prima un suo collega non avrebbe avuto: «E se faccio cattiva impressione? e se mi impapero? e se dico: zitto! e mi rispondono: zitto tu?».
La scuola di Barbiana
La presa della parola da parte degli studenti del Sessantotto si trasforma in una prospettiva temibile per chi ha da poco fatto il salto della barricata ed è diventato professore.
Un modo inequivocabile per tornare a essere “dalla parte degli studenti”, evitando contestazioni, viene individuato, allora, nel libro dei ragazzi di Barbiana: «Avevo letto don Milani e progettavo di essere non come la professoressa della Lettera, bensì come lui. Non prete, però, solo rivoluzionario ed esperto in nomi degli alberi (mai dire: sali su quell’albero, sempre determinare: sali su quel ciliegio), in modo da fare bella figura con i miei allievi di campagna».
Era stato don Milani, infatti, a notare che nei manuali scolastici si seminava sempre nel mese sbagliato, e le illustrazioni non erano mai giuste e là dove si parlava di un pero appariva, inesorabile, un pesco.
Il solco fra il sapere in teoria, e quello pratico dei ragazzi, figli di contadini, andava colmato per far germogliare la figura del nuovo insegnante. Quale modo migliore di colmarlo, dunque, dell’imparare a mente tutti i nomi degli alberi?
Scrive Starnone: «Quando sono entrato per la prima volta in classe, un’aula dell’Ottocento, stufa a legna, fumo perché il camino non tirava bene, un teppistello è uscito dal banco senza chiedermi il permesso. E io gli ho intimato: fermo là, come ti chiami. Lui s’è fermato e “Cataldi” ha detto indicando la legna in un angolo, e poi: “Il ciocco”, per farmi capire che il suo compito era alimentare la stufa. Allora io ho concesso: fa’ pure. E quindi “che legna è?” ho chiesto col tono di chi dice: vediamo se lo sai. Lui ha fatto lo sguardo così: ?. Io in gran tensione ho precisato: di che albero. Il ragazzo mi ha risposto: che ne so. Allora l’ho fissato a lungo terrorizzandolo senza intenzione. Pensavo solo: se distolgo lo sguardo mi chiede che albero è e nemmeno io lo so. Ma il ragazzo invece mi ha domandato: “Chi ha messo la bomba a Milano?” Io ci ho pensato e nemmeno quello sapevo. Ho risposto: “Vediamo l’importanza delle tombe per gli antichi egizi”. “È stato lui”, allora ha sussurrato Cataldi agli altri».
Forse, uno dei dialoghi più riusciti mai scritti sulla scuola, insieme ad alcune pagine di Lucio Mastronardi e del suo Maestro di Vigevano (costantemente omaggiato da Starnone, anche quando lo usa per mettere in luce l’ignoranza del preside: «È un omaggio alla memoria del collega Mastronardi». Il preside: «Vivaldi, posso capire l’affetto che la lega alla memoria di un amico scomparso»).
In questo dialogo sui ciocchi e piazza Fontana, da un lato c’è l’insegnante progressista che, con le migliori intenzioni, interpreta senza fantasia alcuna quello che considera il vademecum del buon educatore del suo tempo: imparare i nomi degli alberi, in questo caso. Dall’altro i ragazzi, sempre diversi, che passano e cambiano, e che chiedono una cosa soltanto: di essere guardati e non immaginati, nemmeno attraverso la lente di Lettera a una professoressa.
Mondo arcaico e artificiale
Prendiamo Fuori registro (1991), dove non c’è più nemmeno lo stimolo della politica a spingere il professore a imparare i nomi delle piante che diventano sintomo di un sapere incartapecorito, inutile e pure sbagliato.
«Tarassaco», esclamo, indicando macchie gialle sui campi, oltre i binari della ferrovia. «Tarassaco» è parola di mirabile alone poetico. Le faccio notare: «Il colore è accecante». E poetizzo: «Avvampa il tarassaco». Lei cautamente mi corregge: «Sono broccoletti».
Il re è sempre nudo per i ragazzi e le ragazze di Starnone, il disincanto li accompagna in una scuola che siede tra passato e futuro ma non li ha presenti entrambi, li confonde e basta.
«Avvampa il tarassaco». Il tarassaco che poi è un broccoletto, il tarassaco bugiardo, parafrasando un celebre studio di Umberto Eco sui manuali scolastici, I pampini bugiardi, pubblicato nel 1972.
L’universo linguistico e immaginativo degli insegnanti altro non è che un mondo arcaico e artificiale fatto di parole e oggetti che galleggiano nell’aria immobile della scuola come fantasmi, privi di vita e di sostanza.
L’eresia catara, di pirandelliana memoria, il Moro di Venezia, usato per combattere il razzismo mentre lo si esercita contro l’unico studente africano, al quale non viene fatto nemmeno leggere perché non può capirlo, il dolore di Pascoli e Manzoni da misurare un tanto al chilo nei secoli dei secoli della pubblica istruzione (e chissà chi stava peggio), in una parola i programmi ministeriali e l’eterna domanda del «dove sei arrivato», fatta al collega, come se «il programma fosse una linea ferroviaria e Leopardi la stazione di Battipaglia».
Scrive Starnone: «Mentre parlo, a volte mi rendo conto che dovrebbero vietarmi ai minori. Invece mi stipendiano perché ai minori racconti la storia dell’umanità per piccoli ma saporosi assaggi: vessazioni, violenze, dominio dei pochi sui molti, poesia e prosa dei cattivi sentimenti travestiti nel finale da buoni sentimenti di buoni d’animo che hanno commesso ogni sorta di misfatti contro quelli d’animo cattivo. I minori, in genere, si salvano solo perché, per una convenzione non scritta, tutto ciò che risuona nelle aule, falso o vero che sia, non li turba: sono solo “lezioni scolastiche”, “esercizi”, “compiti”».
Niente a che vedere con la vita vera. Un canone di saperi che perdono ogni verità se non quando, paradossalmente, vengono fatti a pezzi come è il caso del Manzoni odiato e sbeffeggiato dal «collega Zanella» per cui la madre di Cecilia diventa il trionfo stucchevole del “ma”: «È una donna di giovinezza avanzata ma non trascorsa, con una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, di un’andatura affaticata, ma non cascante». «Ma quanti “ma”!».
Fino a quando non è proprio Zanella a diventare la madre di Cecilia in una commovente rappresentazione in classe che il narratore sbircia, insieme al bidello, dal buco della serratura, per poi sciogliersi in lacrime: «La classe era paralizzata da un innaturale silenzio. Zanella era diventato la madre di Cecilia. Un portento. A cinquant’anni e passa era riuscito a darsi un aspetto che annunziava una giovinezza avanzata ma non trascorsa. Malgrado i baffoni, e pur essendo di Ascoli Piceno, ostentava quella bellezza molle e a un tempo maestosa che brilla nel sangue lombardo. La passione grande e un languor mortale gli velavano e offuscavano un pochino il corpo bello, ma non glielo guastavano. E incedeva dal termosifone alla prima fila di banchi con un’andatura affaticata, ma non cascante».
Prova d’orchestra
Il terzo libro della nuova raccolta di Einaudi è Sottobanco (1992) da cui è tratto il film La scuola (1995) di Daniele Lucchetti. Sottobanco è un copione che mette in scena un consiglio di classe.
Ci sono l’elenco dei personaggi e le battute, in modo che emerga, polifonica, la dissonanza stridente delle voci che concorrono a formare la scuola dalla parte degli insegnanti, ché gli studenti qua non parlano mai.
Una prova d’orchestra di felliniana memoria, tanto nessuno sembra procedere in sintonia con i propri colleghi. Così c’è il preside, figura eterna che fin dai tempi di Ex cattedra continua a ripetere che a scuola «non si fa poesia» salvo poi decidere di farla, una tantum, per spiegare le ragioni della bocciatura all’alunno Cardini, una bestia, un ignorante.
La poesia che serve a infiocchettare un’ingiustizia, tangibile quando Cardini viene messo a confronto con l’alunna Solofra «che è tanto brava». Ecco che Cozzolino, l’insegnante progressista, in crisi, ma in modo diverso dal suo collega di Ex cattedra, recupera proprio il don Milani della Lettera per dire che «Solofra non studia, Solofra è una prima della classe. Non ha tic. Non parla traducendo dal dialetto in un italiano da troglodita. Non ha i capelli alla mohicana. Non si veste come la figlia di uno spacciatore. Non ascolta la lezione col walkman. Non porta scarpe vecchie di sua sorella che puzzano. Solofra è pulita. Interrogata, si dispone di lato alla cattedra, senza libro, senza appunti, senza imbrogli. Ripete la lezione senza pause, tutto quello che c’è sul libro, tutto quello che m’è uscito di bocca. Alla fine di questo fedele rispecchiamento del mio lavoro le metto nove e vorrei tagliarmi la gola. Solofra è la prova che la scuola funziona solo con chi non ne ha bisogno».
Un’idea di scuola
Chiude la raccolta Solo se interrogato (1995), dove l’autore torna a scrivere in prima persona, cercando un modo per far assomigliare la pratica didattica alla sua idea di scuola, un’idea nata, non solo, sui libri, ma anche in reazione alla scuola di ieri, quella che ha frequentato da bambino e che ha detestato (tema ricorrente in molti racconti).
Solo che qui è scomparsa l’ironia mentre è subentrata una pensosa e radicale critica all’immobilità in cui è immersa la scuola. Sono passati 27 anni dalla pubblicazione di questo libro e pare scritto oggi.
La scuola senza domande, che «interroga senza farsi mai interrogare», sembra proprio non essere mai scomparsa mentre sempre più profondo è quell’abisso fra le biografie dei docenti e dei discenti che qualche decennio fa si pensava di riempire imparando a mente i nomi delle piante.
«Ipotizzo da tempo che i miei alunni abbiano potenzialità che non sono capace di captare», si dice il protagonista di Solo se interrogato. «Leggiucchio qua e là per capire cosa si sa delle attitudini dei giovani nati a occhio e croce vent’anni fa. Non ne cavo granché. Allora aguzzo lo sguardo, cerco di cogliere segnali per conto mio. Ma i ragazzi si adoperano per non lanciarne. La scuola, probabilmente, seguitando a pretendere le cose che pretende da duecento anni, li ha convinti da tempo che quelle potenzialità sono, nell’ottica del successo scolastico, negative; è bene, quindi, farsi in quattro per nasconderle e adattarsi fiaccamente a ciò che si esige da loro, se si vogliono collezionare stentate sufficienze». La scuola diventa così un «monumento agli atti dovuti»: frequentare, non essere mai un problema, parlare solo «quando si è interrogati».
I libri di Starnone finiscono per tracciare così la genealogia di un’idea di scuola e di un tipo di insegnante che non ha mai smesso di riflettere su sé stesso, con ironia ma senza nessuna indulgenza, e senza incarognirsi, che troppi sono quelli che, in nome di una indefinita età dell’oro, invocano oggi un ritorno all’ordine che guarda caso coincide con gli anni della loro giovinezza.
Ma quale ordine, sembra dirci Starnone? Quello della (sua) maestra Magliaro e dei suoi pampini bugiardi, la scuola «del fastel d’aridi ciocchi, e dei fringuelli irrigiditi»; o quella del professor Freschi la cui moglie, «a pagamento, lavorava per un’ora precisa a non farmi capire di pomeriggio quello che lui non mi faceva capire di mattina».
No, meglio guardare avanti, anzi davanti, guardare i ragazzi e le ragazze, pretendere da loro domande e non risposte, salvo poi scoprire di non saper rispondere a queste domande e cercare una risposta, per una volta, tutti insieme.
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