- Chi vincerà la battaglia degli schermi di Natale? Al botteghino chi lo sa, ma sulla doppia sponda di sala e in streaming non c’è gara. Il film di Adam Mc Kay è il regalo a orologeria che il colosso piazza sotto l’albero, su piattaforma, il 24 dicembre. Ma dall’8 dicembre è già al cinema
- Genere indefinibile: tra la satira politica e il catastrofismo consapevole, passando per la science fiction profetica. È Il dottor Stranamore del terzo millennio, e Armageddon virato in commedia.
- L’antefatto è che Jennifer Lawrence, dottoranda in astronomia in servizio presso un osservatorio, ha individuato una nuova cometa più perniciosa dell’asteroide che estinse i dinosauri sul nostro pianeta.
Non vale, naturalmente. È come giocare a poker con quattro assi alla prima mano, e il giocatore è zio Paperone.
Questo passaggio d’anno oltraggiato dall’oltranzismo negazionista sul Covid e dal negazionismo passivo dei summit sul clima ha già il suo film-evento, radicalmente nutriente, radicalmente indigesto. Sia chiaro: è un complimento. Chi vincerà la battaglia degli schermi di Natale? Al botteghino quién sabe, ma sulla doppia sponda di sala e in streaming non c’è gara. Don’t Look Up è il regalo a orologeria che Netflix piazza sotto l’albero, su piattaforma, il 24 dicembre. Ma dall’8 dicembre è già al cinema.
Fatti realmente possibili
Genere indefinibile: tra la satira politica e il catastrofismo consapevole, passando per la science fiction profetica. È Il dottor Stranamore del terzo millennio, e Armageddon virato in commedia. È pane amaro per i fighting for the future. Incassa risate e lascia le gambe molli. Perché sai che – come da scritta sul cartellone italiano – è «basato su fatti realmente possibili». Adam McKay, che lo ha scritto (insieme all’amico giornalista David Sirota) e diretto, ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura non originale con quel The Big Short (La grande scommessa) che dissezionava le manovre degli investitori alla vigilia della crisi finanziaria del 2007-2008, commedia acida – anche quella – e tutt’altro che minimalista.
Non è un novizio, viene da queste pasture. Imbarca di volta in volta cast da capogiro. Mai però di rilievo ipertrofico come in questa occasione: Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett, Mark Rylance, Timothée Chalamet, Ron Perlman, Himesh Patel, Ariana Grande.
I pronostici di nomination agli Oscar già negli Usa si sprecano, ma non è questo il punto. L’attivismo ambientalista di Leo DiCaprio ha trovato con Don’t Look Up la quadratura del cerchio, una narrazione allegorica capace di fare appello alla responsabilità individuale degli spettatori anche più dei suoi documentari.
La fine del mondo è una faccenda ridicola. Meryl Streep – nel film Mrs president Janie Orlean – viene colta da una inarrestabile crisi di ilarità quando la informano che una cometa taglia Everest, tra i 5 e i 10 chilometri di diametro, colpirà la Terra in capo a sei mesi e 14 giorni. Il suo circo di accoliti nello studio ovale – compreso il generale in capo del Pentagono – si sbellica insieme a lei. «Sapete quante fini del mondo ci sono capitate negli anni?», chiede Meryl agli esterrefatti scienziati DiCaprio e Lawrence. Le votazioni di midterm sono alle porte, e non è il caso di rovinarsi la piazza con brutte notizie. Ha un piano brillante, Mrs President: «Sit tight and assess», aspettare e accertarsi.
La storia
L’antefatto è che Jennifer Lawrence, dottoranda in astronomia in servizio presso un osservatorio, ha individuato una nuova cometa più perniciosa dell’asteroide che estinse i dinosauri sul nostro pianeta. La traiettoria non lascia dubbi, conferma il professor DiCaprio, scienziato di provinciale grigiore, ma non sprovveduto.
Trasferiti di peso a Washington, nell’anticamera della stanza ovale il tempo si ferma: qualunque frivolo impedimento è più urgente dell’apocalisse annunciata. La pantomima che occuperà i successivi sei mesi e 14 giorni è tanto comica quanto agghiacciante, perché rispecchia l’ordinario copione dei vizi pubblici comuni al nostro presente.
La frivolezza incosciente della presidente ammicca a Trump, come l’arroganza del nepotismo: il capo dello staff è suo figlio, perché no? Ma certi fotomontaggi incorniciati sulla scrivania insinuano, a prestarci attenzione, promiscuità democratiche. I due coscienziosi scienziati divulgano per disobbedienza il segreto di stato e finiscono imbellettati sui media tra le gag degli anchor man/woman del consumismo tv (la Brie Evantee di Cate Blanchett è immensa, seppellisce anche gloriosi precedenti seriali come la supercoppia femminile di The Morning Show).
È una notizia di terza classe, la fine del mondo. Gli scienziati ambientalisti lo sanno per esperienza. Nelle scalette dei talk show finisce in coda alla rottura tra la pop star del momento (Ariana Grande) e il rapper suo fidanzato, virale sui social almeno quanto la dibattuta querelle sugli amori a intermezzi tra Jennifer Lopez e Ben Affleck.
Ma l’sos planetario diventa merce prelibata quando lo scandaletto di un senatore pornodivo troppo legato alla presidente fa precipitare Meryl Streep nei sondaggi. Va in scena, allora, un (avan)spettacolo di pura immagine, con la Nasa addetta a suonare pifferi e grancasse di impotenza sprecona. È nell’ordine del verosimile.
Non importa se l’esercito di missili approntato in corsa avrà l’effetto di un pugno di mortaretti sotto un carro armato: l’importante è scovare un eroe da mettere a capo della missione. Il veterano infrollito Ron Perlman si adatta a replicare – a favore di pubblico – il sacrificio patriottico che troppe catastrofi scongiurate nella finzione hanno fatto venire a noia. E neanche al microfono di Cape Canaveral, per l’ultimo addio, ha diritto a parole sue: gli mettono in bocca battute rubate a Salvate il soldato Ryan.
Satira sociale
È a questo punto che questo film di lunghezza abnorme – ma così inquietante da non riservare un secondo di tedio – fa un triplo salto mortale. La satira politica diventa sociale ed economica. È il capitale, Das Kapital, a decidere i nostri destini, nella persona del carismatico tycoon dell’impero tecnologico denominato Bash, sigla fittizia intercambiabile con tutte quelle che governano il pianeta reale. Il Mark Rylance di Don’t Look Up è un mix di Steve Jobs, Mark Zuckerberg e Elon Musk: carismatico, celestiale, filantropico ma soprattutto finanziatore livello platino della campagna presidenziale. Sa tutto di tutti, perfino come morirai.
È lui a scoprire che la cometa fatale è una miniera inestimabile di materiali per componenti. Contrordine: l’amministrazione si adegua, il nuovo diktat è il negazionismo di comodo, Don’t Look Up!, non guardare in alto, non è catastrofe, è provvidenza divina. Contro i partigiani della scienza (Look Up!), i negazionisti del popolo invadono i social. La cometa porta posti di lavoro: gli spot tengono banco sui media, lo scienziato Di Caprio si è convertito a testimonial del marchio, è un sex symbol da copertine, si porta a letto Cate Blanchett che per eccitarsi lo implora: «Dimmi che il mondo finirà!»
La paura è nemica del progresso, l’emergenza è una merce, basta saperla sfruttare. Se poi va male, il salvataggio interspaziale per quelli che contano è già predisposto, con le sue brave camere criogeniche per garantire un futuro agli happy few, lontano dalle macerie di questa civiltà. Spoilerare sarebbe scorretto, basta sapere che McKay non racconta una resa senza speranza a menzogna e corruzione: c’è una salvezza dell’anima che mette insieme la scienza e la buona fede di strada, gli irriducibili emarginati e ridotti al silenzio – come l’impavida Jennifer Lawrence – e i millennials senza futuro. Greta sarebbe di questa partita. C’è una coscienza profonda, che fa ribellare il professor Di Caprio al suo ruolo di burattino, e gli detta in diretta un monologo parente stretto di quello del Peter Finch di Quinto Potere. Il generale festante a cavalcioni dell’atomica de Il dottor Stranamore ha lasciato più segni di tanta saggistica. L’appello alla responsabilità individuale non è un esercizio scontato, ma l’umorismo, come in ogni battaglia civile, è più efficace della retorica. Una risata ci seppellirà.
Problema: cos’è oggi Netflix, se non la Bash del pianeta cinema?
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