Il cantautore genovese è morto l’11 gennaio del 1999. È improbabile che nelle veglie celebrative risuonino i versi a cui Faber, con la sua passione politica forte, precoce e tenace, teneva di più. Se non lo fai parlare, Fabrizio, puoi permetterti di imbalsamarlo secondo l’aria che tira
La canzone di Marinella «era roba da addormentarsi sul divano». Parole testuali di Fabrizio De André, tra le chiacchiere ondivaghe di certi pomeriggi sulla metà degli anni ‘90.
Inesorabilmente, Marinella furoreggerà tra le schitarrate rituali, collettive e nostalgiche, che di norma celebrano tutti gli anniversari da quel lontano 1999. Cantata da Mina nel 1967, era stata il grimaldello per conquistare le grandi platee, per cominciare a vedere «due palanche» dalla Siae uscendo da un culto di nicchia: turning point, certo, ma sul piano commerciale, non sul piano creativo.
Fabrizio l’aveva scritta nel 1962, sul ricordo di un trafiletto di nera che da ragazzo lo aveva folgorato. Non racconto niente di nuovo: era una storiaccia di femminicidio, disprezzo e miseria, una povera prostituta scaraventata a morire nel Tanaro o forse nella Bormida. Ma ad ascoltarla senza saperlo sembrava una fiaba: aveva i numeri giusti per una hit. Lui sessant’anni non ha fatto in tempo a compierli, se n’è andato l’11 gennaio di venticinque anni fa.
Icona sciroppata
Mi piacerebbe poter dire, come Fabrizio De André, che «quello che non ho è quel che non mi manca». Mi manca invece, dolorosamente, la capacità di questo paese di non seppellire i suoi artisti e i suoi intellettuali più liberi sotto una stomachevole coltre di glassa buonista.
La sbrigativa etichetta “poeta” è comodamente ecumenica, autorizza la retorica, smussa gli spigoli, dissocia un uomo dalle sue idee e dalle sue passioni politiche. È buona per il palato di Matteo Salvini, che di De André si proclama fan. L’icona sciroppata, edulcorata artificialmente, diventa inoffensiva.
È improbabile che tra i canti delle veglie celebrative risuonino i versi a cui Faber, con la sua passione politica forte, precoce e tenace, teneva di più. In questo quarto di secolo ho visto spuntare legioni di amici intimi a posteriori. Si sono moltiplicati a valanga, un po’ come i conigli in Australia. Perciò preferisco lasciare che parli lui.
«Non è da oggi che mi sono schierato – mi diceva Fabrizio nell’anno di grazia 1990 – Non pretendo che qualcuno conosca la mia vita né tantomeno i miei atteggiamenti politico-sociali, ma è dal 1957 (avevo 17 anni allora), da quando frequentavo i circoli libertari di Genova e Carrara, che mi sono schierato in maniera precisa. E da allora non ho mai trovato nessuno schieramento che da un punto di vista sociale e morale mi garantisse qualcosa di meglio».
Georges Brassens
Credo davvero che a legarci sia stata quella comune, insolita ma decisiva bussola politica che ci aveva plasmato la testa da ragazzini: tale Georges Brassens, un altro anarchico.
Brassens e Léo Ferré, quello di Ni Dieu ni Maitre e di Les Anarchistes. Non erano canzoni, era una scelta di parte e di sguardo sul mondo. «Non sono sicuro che se non avessi ascoltato le sue canzoni non avrei scritto quello che ho scritto – mi diceva – sono invece sicurissimo che se non avessi ascoltato Brassens non avrei vissuto come ho vissuto». Quando è morto Ferré ci siamo consolati a vicenda.
Non c’era verso di chiacchierare con Fabrizio senza scivolare subito sull’attualità politica e sociale. Quando cantava «anche se voi vi sentite assolti / siete per sempre coinvolti» non parlava in astratto. «Preferisco, sono più portato ad aprire i cancelli alle tigri che non a cavalcarle – mi diceva – Questo vuol dire, metaforicamente, aver dato un input, laddove una canzone lo può dare, a una determinata classe sociale, a ribellarsi a determinate vessazioni, ad andare in piazza a rivendicare i propri diritti. Nel momento stesso in cui le tigri sono uscite dalle gabbie, non mi sento adatto a cavalcarle, anche perché avrei idiosincrasie sia di comando (non saprei dove condurle), sia di obbedienza: non saprei esattamente dove essere condotto».
La sua natura
Non se l’è mai tirata da “impegnato”. Era la sua natura, punto e basta. Sarebbe bello che nelle veglie collettive dell’11 gennaio qualcuno ricordasse il testo de La ballata del Michè, la prima canzone che ha scritto.
«Il Michè – mi ha spiegato una volta – era un immigrato del sud a Genova, un certo Michele Aiello. Erano periodi in cui a rubare un tacchino rischiavi anni di galera. E di solito il tacchino lo si rubava per mangiare, non per rivenderlo. Questo Michele Aiello aveva fatto qualcosa di peggio. Sentendosi emarginato, messo fuori dalla società in cui era approdato, aveva un’unica cosa, una donna, cui appigliarsi. E qualcuno forse più ricco di lui aveva cercato di portagliela via».
Il De André cantastorie nasce con quel valzer struggente e con quel personaggio, il capostipite dei suoi eroi diseredati. «Era un tipico esemplare di quella non-classe che si chiamava, e credo si chiami ancora, sottoproletariato. Del sottoproletariato non si occupava nessuno dei partiti tradizionali, anche perché erano fonti molto malsicure di voti. Ce ne occupavamo noi come movimento libertario e dopo, ma molto dopo, il partito radicale». Non puoi rimuovere quel pezzo di Faber senza snaturarlo.
C’è quella parola, Anarchia, che esplode in un paio di brani, Se ti tagliassero a pezzetti e Amico fragile. Nel 1981, quando incise il primo dei due, i discografici avevano preteso una versione più mite: «Signora Libertà, signorina Fantasia». In concerto, la “signorina” ha sempre avuto il suo vero nome.
Se non lo fai parlare, Fabrizio, puoi permetterti di imbalsamarlo secondo l’aria che tira. C’è un solo filmato in cui si racconta come cittadino del suo tempo, capace però di radiografare il presente e, molto spesso, il futuro. È stato offerto alla Rai, ma la risposta ufficiale è che gli spazi per i documentari nelle reti pubbliche sono stati falcidiati senza pietà.
Meglio che la memoria dell’animale politico si estingua con le generazioni dei boomer, i nipotini si accontentino di canticchiare. Mi aveva chiamato al cellulare il 1° gennaio di quel 1999. Stavo salendo su un aereo. «A marzo ci troviamo tutti alle Terme dei papi», diceva.
Ma so dove ritrovarlo, ogni volta che la sua assenza mi pesa troppo. Mi basta risentire la sua voce quando di se stesso dice, con l’umiltà che solo gli autentici saggi conquistano: «Quella che ho scelto io è un’attività che può fare chiunque. Credo che quasi tutti noi siamo degli artisti. Ma non abbiamo il tempo, le condizioni, le opportunità. È molto difficile che una persona che lavora otto ore al giorno al tornio vada a casa e si metta a cercare di comporre una canzone».
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