I lavoratori autonomi e da remoto sono sempre di più, ma i co-working nelle grandi città sono troppo costosi. La tentazione è quella di rifugiarsi in bar instagrammabili. Ma forse è un’estetica di cui non abbiamo bisogno
Qualcuno nelle storie Instagram posta la foto di una fetta di Sacher con abbondante panna al seguito e un cappuccino con la forma sinuosa di un cuore nella schiuma. “Office for today” si legge in comic sans.
Un altro giorno di ordinaria estetica da freelance dato in pasto ai social network, dove continuano ad essere di grande tendenza i contenuti legati alla vita da nomade digitale, uno stile di vita cosmopolita, reso possibile dal lavoro indipendente.
Negli anni del Covid-19, durante i quali si è parlato molto di sindrome da burnout, settimana lavorativa corta o work-life balance, la romanticizzazione della “vita lenta” e del lavoro da remoto svolto in riva al mare (si è parlato anche di southworking), ha raggiunto vette prima d’allora inesplorate.
Lavoro autonomo
L’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di lavoratori autonomi, circa 4,5 milioni di persone che hanno scelto la strada disastrata della partita iva, che equivale a circa il 20 per cento degli occupati totali nel nostro paese.
Si tratta di un dato in aumento negli ultimi anni, che probabilmente va di pari passo con il fenomeno delle Grandi Dimissioni, per il quale ogni anno due milioni di persone lasciano il proprio lavoro in cerca di alternative migliori o per riprendersi da un esaurimento.
Assieme a tutto questo, si registra un altro dato in crescita: il caro vecchio smartworking, introdotto per causa di forza maggiore durante il lockdown, dopo un periodo di grande riflusso e restaurazione, è tornato in pianta stabile nelle grandi imprese e nella pubblica amministrazione, oltreché nel folto bosco della piccola e media impresa, soprattutto nel settore del marketing digitale e dello sviluppo tecnologico.
Poco meno di quattro milioni di lavoratori da remoto, che si sommano agli altrettanti autonomi. Un’orda di persone che possono lavorare un po’ dove gli pare, tutti i giorni, alla ricerca disperata di una postazione comoda, confortevole e magari particolarmente instagrammabile.
Tuttavia le spiagge caraibiche che vediamo nei reel dei travel blogger, sono pressoché deserte. Lavorare fuori casa per un freelance che vive in una metropoli può diventare una specie di epopea contemporanea tutt’altro che invidiabile.
Lo scorso autunno la società statunitense WeWork, operativa nel settore dei coworking su scala mondiale, ha dichiarato istanza di fallimento negli Stati Uniti e in Canada. Tra le cause sembrerebbero esserci una serie di investimenti sbagliati, la scelta poco lungimirante di quotarsi in borsa, congiunture sfavorevoli nel mercato immobiliare e sciagure come, appunto, la pandemia.
Secondo gli esperti però, il mercato dei coworking non sarebbe in crisi, sebbene stia attraversando un periodo di cambiamenti significativi, come per esempio la necessità di dislocarsi nelle periferie o in provincia e non più concentrarsi al centro dei grandi agglomerati urbani che attirano sempre meno professionisti e non sono sostenibili economicamente.
Tuttavia, il costo medio di una postazione in città come Milano e Roma, non scende sotto a qualche centinaio di euro al mese. È sempre bene ricordare che in Italia cresce il numero dei freelance, ma guadagnano sempre meno, con redditi annui che in media non superano i 20mila euro annui.
Problematici bar
Ecco che allora, chi non vuole rimanere in casa e neppure spendere una fortuna, si riversa altrove, ovunque ci sia una connessione stabile e la cosa più vicina possibile a una scrivania, in una sola parola: i bar.
Personalmente, per nessuna ragione al mondo mi imbottiglierei nel traffico o mi infilerei in metro per andare a lavorare da qualche parte dove peraltro non posso togliermi le scarpe, se nessuno mi costringe a farlo.
Tuttavia, oltre ad essere un povero freelance, sono anche un millennial e non sono di certo immune alle tendenze che mi propina l’algoritmo e anni lavaggio del cervello via pessimi film americani.
Purtroppo però, ogni volta che mi sono addentrato in cerca di un posto dove perpetrare il sogno di ordinare “il solito” al barista di fiducia, ho riscontrato solo amare delusioni.
Consumazioni obbligatorie di almeno dieci euro, camerieri che si precipitano ad informarmi che per l’ora di pranzo avrei dovuto sloggiare, tavolini in legno e ferro battuto traballanti e sedie incredibilmente scomode che chiamano immediatamente la sciatica, un malanno che i freelance non possono permettersi, così come qualunque altra malattia.
Per non parlare della tragedia di dimenticare le cuffie a casa. L’incubo di ogni freelance misofonico non risiede tanto nel sorbirsi musica pessima e ore e ore di discussioni sull’esonero di José Mourinho tra i pensionati del quartiere, ma è il rumore incessante delle stoviglie.
Una volta ho impiegato il triplo del tempo a chiudere un pezzo perché c’era un senza tetto sulla strada che ha gridato a squarciagola per tutta la mattina. Per ironia della sorte era seduto su una malconcia sedia da ufficio e ruotava su sé stesso mentre insultava i passanti.
Ammetto di avere anche le mie idiosincrasie: se non trovo un posto che mi permette di stare con lo schermo rivolto verso il muro, niente da fare, non riesco a scrivere una virgola perché mi sento spiato. Se bevo anche solo mezza tazza di tisana, invece, vado in bagno ogni venti minuti per tutto il giorno ed ho il terrore che mi rubino il computer durante la mia ripetuta assenza.
D’altra parte non c’è grande alternativa ai bar. Le biblioteche impediscono di portare libri dall’esterno, alcune vietano persino di introdurre dispositivi tecnologici. Le aule studio sono strapiene e i pochi circoli o locali che permettono di occupare una sedia e un tavolino senza che qualcuno storca il naso sono pieni di ventenni che mi fanno sentire vecchio e fuori luogo.
Ho quasi 35 anni e ho scoperto che presto sarò più vicino ai cinquant’anni che ai 20, un dato di fatto persino peggiore di dover passare alle ritenute con imponibile al 75 per cento.
Il tempo
Nel saggio Salvare il tempo di Jenny Odell appena pubblicato in Italia da NR Edizioni, l’autrice del bestseller Come non fare niente reitera un concetto molto condivisibile: siamo schiavi delle consegne, delle scadenze, dell’ottimizzazione e dell’orologio, ma sono tutte invenzioni dell’uomo e possiamo tranquillamente sbarazzarcene e sopravvivere, spiega.
Ho come l’impressione che lo stesso valga per il mito e per l’estetica del lavoro da remoto. Non solo non ne abbiamo bisogno, ma sono un abbaglio collettivo. Interpretando il pensiero di Odell, dovremmo riappropriarci dei bar come luoghi di aggregazione e socialità, anziché andare a lavorarci. Più aperitivi e meno password Wi-Fi, quindi e che il commercialista ce la mandi buona.
© Riproduzione riservata