Dopo il successo di La straniera, La nave di Teseo, nel 2019, finalista al Premio Strega, Claudia Durastanti, tra le voci più interessanti del panorama letterario contemporaneo, torna con Missitalia, La nave di Teseo, 2024. Torna con delle eroine che la rivoluzione la fanno senza neanche sognarla, un gruppo di donne che tra loro, in apparenza, non condividono niente. E che però, in realtà, hanno in comune un fuoco, un fuoco che le abita e che a volte sopisce, a volte si desta ed è capace di divorare tutto quello che c’è attorno.

Durastanti, lei in Missitalia scrive: «Quando ti senti insicura provi a capire se le tue emozioni siano vere o accettabili domandando agli altri la stessa cosa, ma tu esisti anche se io non ti guardo».

Uno dei tratti più ostinati del mio carattere è il desiderio di essere validata da chi ho accanto, avere conferma della mia esistenza attraverso lo sguardo altrui.

Si percepisce solo tramite gli altri?

Da bambina era così. Una cosa che ho patito molto.

È riuscita a emanciparsi?

Non del tutto: per me crescere è stato un movimento atto soprattutto a capire e accettare che esisto anche se non vengo guardata, anche se davanti non ho uno specchio a darmi il mio riflesso.

C’è del narcisismo in questa azione?

Non credo: non ho mai provato alcun godimento. Anzi, direi il contrario.

Serve a darci un’identità o ad affermare la nostra presenza nel mondo?

Entrambe; forse sono la stessa cosa, in effetti. Senza l’esteriorità, la possibilità di dire “Io sono”, contrapporci all’altro per affermare noi stessi, non l’avremmo. Credo sia un passaggio inevitabile, solo che poi, a un certo punto, inevitabile è pure spostarsi, non rimanere per sempre davanti allo specchio.

MissitaliadiDurastanti

Crede sia qualcosa che facciamo consapevolmente?

A volte sì, a volte no. Tempo fa, leggendo le lettere di Goliarda Sapienza, sono state pubblicate di recente da La nave di Teseo, mi sono imbattuta in una frase che mi ha colpita. «Non ti preoccupare del mio viso, non ho specchi e questo mi permette di dimenticarlo. Adesso è come se avessi i lineamenti che piacciono a te». Sapienza parla a Fleur Jaeggy, sono due amiche e due autrici a scriversi, e un’ammissione come questa, un tale godimento nella passività cui si lascia andare, credo sia qualcosa di bellissimo e molto raro. Qui, insomma, questa operazione viene fatta con coscienza. Mi viene in mente Sally Rooney, tra l’altro: lei nel raccontare questo lucido affidarsi, questa delega di una cosa importante come la percezione di noi stessi, è bravissima. L’innamoramento è arrendersi all’altro. E quindi, sebbene possa parere controintuitivo, a volte lo facciamo consapevolmente, sì.

Lei è un buono specchio per chi ha attorno?

Mi assumo la responsabilità, l’arroganza di dire di sì.

Chi per lei è stato uno specchio fedele a quel che sentiva di essere?

Mio fratello. Non si è mai rotto, non si è mai offuscato: mi ha sempre restituito un riflesso nitido di me stessa.

Tornando alle donne protagoniste del romanzo: chi è arrivata per prima?

Rosa Spina.

Che rapporto avete?

Problematico. In lei, nel suo moralismo giustiziero riconosco alcune tendenze che ho avuto io per anni, specie nelle relazioni amicali e sentimentali.

Immagini di mettere le sue protagoniste tutte assieme nella stessa stanza. Cosa accadrebbe?

Penso che Rosa Spina si convincerebbe di essere la capa, mentre, in realtà, le altre si addenserebbero attorno ad Amanda. Mena starebbe per i fatti suoi, ché a lei non frega niente. Alla fine, forse, sarebbe solo un grande, bellissimo caos.

Lei lì dentro che ruolo avrebbe?

(Ride, ndr) Non so. Da bimba volevo sempre essere Jo March, però: qualcosa, in questo caso, vorrà dire, no?

Non glielo concedevano?

In terza media sono inorridita perché scegliendo chi avrebbe interpretato chi alla recita di fine anno non sono stata indicata subito come Jo.

Quando è stato annunciato che avremmo messo in scena Piccole donne per me era scontato e assolutamente naturale, infatti, che l’avrei recitata io, quella parte. Ma è stato indetto un dibattito in classe su chi dovesse farlo: un oltraggio.

La sua reazione?

Furia, violenza. Urlavo: Jo dovevo interpretarla io, altrimenti niente.

Com’è finita?

L’ho interpretata io.

Tutto è bene quel che finisce bene.

Sì, ma ho dovuto instaurare la dittatura.

Insomma, si trovasse in una stanza con le sue protagoniste sarebbe lei, mi dico, a prendere il comando.

(Ride, ndr) Oppressione e libertà. Nel romanzo sono intrecciate in un modo che io ho trovato sorprendente, che credo contenga una certa verità.

Molti credono che disinnescare una forma di oppressione possa essere l’inizio della libertà, ed è così, chiaro, ma si parla poco del disorientamento che segue alla liberazione, e volevo scriverne in Missitalia.

Le prigioni possono essere rassicuranti.

Ci offrono un perimetro assai ben delimitato in cui pensarci e, soprattutto, non siamo costretti a confrontarci con i tanti riflessi di noi stessi con cui entriamo in contatto andando in giro per il mondo. A volte la cattività può assumere una forma di dipendenza.

Ne ha parlato in La straniera.

Ho scritto della dipendenza dagli oppiacei di mia cugina. Quando ha smesso di farsi, poi, per un lungo periodo ha avuto l’aspetto di una eroinomane: finché prendeva l’Ossicodone pareva una persona come tante, senza alcun problema, e quando è riuscita a disintossicarsi ha preso a sembrare una drogata. Sottratta, quindi, la materia di una dipendenza, dobbiamo andare in contro all’assenza di quella cosa che per noi è stata il centro del mondo: lì cadiamo.

Accade lo stesso con le relazioni tossiche?

Assolutamente sì.

Il cambiamento però serve.

Di nuovo: assolutamente sì.

Che rapporto ha con i cambiamenti?

Oggi è un bel rapporto.

Da quando?

È stato graduale, ma gli anni della pandemia mi hanno aiutata. L’impossibilità di cambiare di quel periodo mi ha fatto desiderare, per la prima volta sul serio, di poter cambiare.

Lei oggi come si modifica?

In molti modi. Di sicuro, la scrittura è il mio primo strumento. Mi rendo conto, però, che sono tanti gli scrittori e le scrittrici che oggi temono il cambiamento.

Elena Ferrante in I margini e il dettato (e/o 2021) scrive che dentro ogni autore, autrice c’è una creatura: lei è la vera responsabile della scrittura.

Dunque?

Ribadisco quel che ho detto sul cambiamento, ma, aggiungo, a proposito, che credo sia importante non sollecitarla, questa creatura, lasciarla stare, lavorare.

Uno dei problemi che hanno autori e autrici contemporanei è che siamo molto pressati, spinti a farla parlare, la nostra creatura, pure quando lei dovrebbe più che altro fare un lavoro silenzioso, lento.

A cosa porta?

A uno svuotamento del linguaggio.

Quindi potrebbe trattarsi di questo più che di paura del cambiamento.

No, secondo me la paura c’è.

A ogni modo, credo che lo scrittore, la scrittrice si distinguano perché la loro creatura la difendono.

In un’intervista ha detto che ci si vergogna più dei sogni che dei traumi. Mi dice, quindi, un suo sogno?

Sogno molto di frequente di trovarmi con delle figure d’infanzia, però che non ho messo al mondo io: bambini non miei di cui devo occuparmi.

La trappola della salvezza di cui parlava in La straniera?

Per me l’amore è sempre coinciso con l’idea di salvare qualcuno dalle fiamme e temo di non essere ancora riuscita a liberarmi del tutto da questo paradigma.

I bambini che sogna deve salvarli?

Proteggerli, ma non c’è alcuna dimensione di possesso. È un accompagnare, è un salvare transitorio.

Durastanti, questa domanda la faccio sempre. Immagini di avere ottant’anni e che sia una domenica mattina: cosa fa, con chi è, dov’è?

Sono sola, in salotto, la persiana è a mezz’asta. Non ci vedo più bene.

Perché?

Una tra le mie più grandi paure da bambina era quella di perdere la vista.

E se le chiedo d’immaginare il futuro lo vede con una delle sue più grandi paure realizzate?

Così è.

Continui.

Ecco, sono in un salotto, in penombra, e leggo, forse scrivo.

Sono sola, ma sto bene: non c’è malinconia, mi sento finalmente in possesso di me stessa.

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