Il passaggio di consegne da Parigi a Los Angeles, sintetizzato durante la cerimonia di chiusura, è stato un po’ brusco, con quelle immagini da spot pubblicitario di un gelato. Non è un caso che le ultime edizioni dei Giochi davvero indimenticabili siano state Barcellona ’92, Atene 2004, Londra 2012, ora la Francia. Fra noi europei: vecchi e decadenti, piccoli e quasi insignificanti, così pieni del nostro passato e così distratti sul futuro da essere rimasti indietro
Se davvero la bellezza salverà il mondo, Parigi ci ha detto che sì, ci salveremo. Mai se n’era vista tanta tutta assieme: la bellezza dei corpi, delle facce, dei gesti, delle parole. Incorniciate nella bellezza dei luoghi e degli spazi, del cielo e del fiume, delle opere dell’uomo.
I francesi una cosa sanno fare benissimo: usarla, la loro bellezza, di cui sono spavaldamente consapevoli. Ai Giochi questa consapevolezza è finita sotto gli occhi di tutti, anche di quelli con il sorrisetto e i sopraccigli sempre alzati, quelli pervasi dal demone dell’ostilità. La bellezza come teatro, per due settimane, e come medicina, sempre. La bellezza come soluzione possibile: questo siamo, noi uomini, questo sappiamo fare, questi sono i nostri figli, questo è il loro modo di stare insieme e misurarsi.
Forse per questo il testimone passato a Los Angeles sembra così pesante, anche a noi che non lo vediamo, sentiamo e dunque non lo sappiamo misurare. Ma il peso è tutto in quella bellezza che ha riempito occhi e cuore, oscurando le nostre paure e le nostre angosce, come sospendendole. A Los Angeles non ci saranno i Grand Palais, le Tuileries, la Tour Eiffel, le regge, i ponti sulla Senna, il dolce disegno dell’umanità che si vedeva nelle riprese aeree, quando le strade e le case sembravano tessere perfette di un mosaico costruito da qualche divinità.
A Los Angeles c’è l’America che corre, lavora, si affanna, fa i soldi, va veloce insieme al progresso, ed è certamente bellezza anche questa, ma proprio diversa, soprattutto per noi europei. Noi europei, vecchi e decadenti, piccoli e quasi insignificanti, destinati all’estinzione prima degli altri, noi europei così pieni del nostro passato e così distratti sul futuro da essere rimasti indietro, per sempre.
Eppure, anche se non sappiamo se la bellezza salverà il mondo, e d’altra parte non lo sapeva neppure Dostoevskij, di sicuro ha salvato le Olimpiadi. E l’Europa resta ancora un faro che brilla nella notte molto più di quanto le luci accecanti dell’America o dell’Asia possano fare. Perché poi non è un caso, e non può esserlo, che le ultime edizioni dei Giochi davvero indimenticabili, senza fare classifiche, siano state europee: la Barcellona del ’92, che riportò l’allegria dei giovani al potere, la Atene del 2004, uno struggente ritorno a casa, la Londra del 2012, colonna sonora dell’olimpismo, la Parigi di ieri, dove la grandeur è stata solo quella dei ragazzi che l’hanno onorata.
Certo poi che il mondo ha diritto ai Giochi, e certo che sarà magnifico portarli sulla spiaggia di Santa Monica o negli Studios di Hollywood, anche se il passaggio di consegne sintetizzato durante la cerimonia di chiusura parigina è stato un po’ brusco, con quelle immagini da spot pubblicitario di un gelato. Così come sarà eccitante scoprire il mondo lontanissimo (per noi) di Brisbane, e sarà commovente fino alle lacrime, un giorno, vedere i Cinque Cerchi occupare una capitale africana, l’unico continente a non aver mai avuto l’onore di ospitare il mondo, che d’altra parte si sa come lo ha sempre trattato. Certo che sarà giusto e bello alternare la nostra bellezza a quella degli altri. Ma oggi, adesso, dopo questa sbornia da occhi lucidi, viene da pensare e da dire: non è un caso che i Giochi siano nati qui, e non è un caso che qui ci facciano sempre restare a bocca aperta, sempre, come davanti a un piccolo, grande, immenso miracolo.
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