Il secondo capitolo del magnum opus di Villeneuve si regge soprattutto su un’estetica curatissima. Meno convincente dal punto di vista della trama (scontata): in due ore e 46 di film l’adrenalina manca
Se svolti la prima mezz’ora sei a cavallo. È come quando a scuola ti interrogano e non hai ripassato. È umano: ventinove mesi dopo il malloppo monumentale del primo Dune, che è uscito nel pandemico autunno 2021, le nozioni di base sono sbiadite, non ti ricordi “chi è chi” e i nomi impronunciabili escogitati da Frank Herbert nella sua saga (che anche il lettore più solerte ha abbandonato per sfinimento circa a metà) non ti sono per niente di aiuto.
Astutamente la Warner Bros. ha rimesso in circolazione dal 1°febbraio Dune: Parte Uno. È un test per secchioni Doc: il vero fan di Denis Villeneuve si è attrezzato per non annaspare il 28 febbraio, quando Dune: Parte Due occuperà manu militari i nostri schermi. Tant’è che il ripasso ha rastrellato random un’altra trentina di milioni di dollari, mica bruscolini.
I soldi, si sa, sono sopravvalutati. Un budget valutato sui 195 milioni di dollari, però (cifre ufficiose, al netto di spese promozionali) alimenta le attese e stuzzica la curiosità. Alle prese col suo opus magnum, Denis Villeneuve li spende con suprema eleganza, a ragion veduta. Se il botteghino mondiale risponde secondo le previsioni, mangerà pane e sci-fi per i prossimi lustri, un po’ come George Lucas con Star Wars. C’è tutto il secondo volume di Frank Herbert, Dune: Messiah, in attesa di tramutarsi in blockbuster. I primi flash critici della stampa Usa dopo le proiezioni-pilota di Dune: Parte Due parlavano di “masterclass mozzafiato” e della “definitiva epica sci-fi di una generazione”.
Smentisco: non è poi così epico e non sprizza adrenalina da ogni fotogramma, anche se Villeneuve questa volta ha girato al cento per cento in IMAX (solo al 35-40 per cento nel primo capitolo) e il risultato su schermo gigante è la Rolls Royce delle esperienze di cinema.
I vermi superstar
La fantascienza è un giocattolo per la fantasia. La vera ghiottoneria prelibata di un sequel che converte alla guerriglia il fin troppo bello Timothée Chalamet, duca di Atreides, il vero supertoy da collezione del film, sono i sandworms. Da spettatore prenoti subito mentalmente una cavalcata a pelo su questi smisurati vermi della sabbia, un assaggio di alta velocità fracassona che neanche nei peggiori incubi dei no Tav.
I vermi da imbrigliare sono il sogno impossibile di un parco a tema di ultima generazione. Se per le due ore e quarantasei minuti del film però speri solo e soltanto che questa portentosa wild life da effetti speciali torni ad appalesarsi non è un buon segno.
È come dire che i vermi giganti sono le vere superstar di un cast di per sé da utopia. Timothée Chalamet e Zendaya, massime icone della generazione Z, erano già in squadra, come Javier Bardem (il capo dei partigiani, questo poi sono i Fremen) e Rebecca Ferguson (la mamma di Chalamet).
Adesso entrano (o tornano) in gioco Josh Brolin (nella categoria buoni) e una folla di cattivi di lusso: l’Austin Butler di Elvis e il Barone senior Stellan Skarsgard, capi degli Harkonnen nazisti, l’imperatore Christopher Walken e sua figlia Florence Pugh, la seduttiva Léa Seydoux e la sacerdotessa Charlotte Rampling, per citare solo i pesi massimi.
E pazienza se il predestinato a guidare la Resistenza, il cherubino Timothée con le sue pose plastiche e il ricciolo falsamente ribelle, sembra uscito da un manga. È il Goku di Dragon Ball spiccicato, e ha la stessa gamma espressiva.
Tanto bendidio conterebbe comunque poco senza il team tecnico di fedelissimi di Villeneuve, quelli che al primo film hanno guadagnato sei Oscar: Greig Fraser direttore della fotografia, Patrice Vermette scenografa, Joe Walker montatore, Jacqueline West costumista, Paul Lambert supervisore degli effetti visivi, Hans Zimmer per la colonna sonora.
Far volare il box office è essenzialmente compito loro, perché se togli lo scontro impari fra la tecnologia bellica degli imperialisti Harkonnen – eredi della più classica iconografia hitleriana – e la guerriglia ingegnosa dei commandos Fremen, l’intera faccenda è troppo scontata per emozionare.
Negli anni Sessanta Frank Herbert si limitava in fondo a proiettare nel futuro remoto l’abbiccì basilare dell’imperialismo, con gli oppressori che saccheggiano le materie prime (la Spezia del pianeta Arrakis è l’oppio di oggi?), gli oppressi condannati a fame e sterminio e il maquis, la Resistenza popolare armata. On connait la chanson, per restare al francese. Basta guardarsi intorno.
Cinquanta sfumature di beige
In mezzo alle dune il capitale è l’acqua. Si disidratano scrupolosamente i cadaveri per tesaurizzarla e anche le lacrime sono fluido prezioso. Una lacrima può salvare il tuo amato (succederà). E tra le dune il colore guida è il beige: cinquanta sfumature di beige, come nel primo capitolo della saga imperavano cinquanta sfumature di grigio. In questo consiste la “suprema eleganza” del film di cui davo conto.
Chi non spasima per le scene di battaglia (troppo poche, comunque) può godersi un corso accelerato di sciccheria hipster. Può imparare come drappeggiarsi artisticamente nei simil-stracci ton-sur-ton dei derelitti nomadi del deserto. Può sognare un assortimento di elmetti-gioiello con museruola come quelli di Florence Pugh, eredi nobili della bardatura di Hannibal Lecter. Può invidiare le tutine fetish scolpite sul corpo del sanguinario Feyd-Rautha, sociopatico ma dandy: Austin Butler non si è allontanato poi troppo dal cuoio nero del suo Elvis.
Per gli appetiti ancora più frivoli, c’è anche il cosiddetto “passo della sabbia”, che fa parte dell’addestramento militare al deserto ma sembra una danza. È impegnativo ma cool, i personal trainer potrebbero trarne ispirazione.
C’è anche un frammento di puro design italiano. Charlotte Rampling e Florence Pugh in una scena passeggiano nel Memoriale Brion di San Vito d’Altivole (Treviso), progettato da Carlo Scarpa, che nel sacrario è anche sepolto.
Nazisti in bianco e nero
Sempre restando alla palette cromatica, il Terzo Reich spaziale degli Harkonnen è in bianco e nero: per il regista è quanto richiede «un mondo fascista, un mondo senza sfumature o sottigliezze, un mondo duro».
C’è anche un Colosseo triangolare per gladiatori sadici in cui sbudellare a furor di popolo i nemici superstiti. Leni Riefenstahl buonanima è sempre il modello stilistico. Visivamente, è uno dei pregi maggiori del film. Ha richiesto una macchina da presa modificata con gli infrarossi e un filtro che rende inquietanti, paurosi, gli occhi e la pelle dei personaggi. I villain della fantascienza sono i primi a togliere il disturbo, ma gli ultimi a essere dimenticati: il Darth Vader di Lucas fa testo.
Se i naziskin cinefili cominceranno a radersi, insieme al cranio, anche le sopracciglia, avremo la controprova. Speriamoci: guardarsene sarebbe ancora più facile. Sul finale c’è poco da spoilerare: l’happy ending non è happy e non è nemmeno un ending.
La trilogia è inevitabile. Vatti a fidare dei maschi, comunque. Se non ci arriva un sequel di risarcimento sentimentale propongo flash-mob mirati. Possibilmente a cavallo di vermi giganti.
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